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Rachele by Marco Inguscio

Da Parolesemplici

Rachele by Marco InguscioArrivai davanti al palco, come al solito la moltitudine di gente rappresentava una via di fuga troppo facile per il cervello. Come il naso impazzito di un cane che fiuta troppi odori, così il cervello si perdeva in una gemmazione continua di dettagli ed apostrofi umani. Sono rimasto indietro infatti, per le spinte delle persone – emoglobina tra arterie ostruite – la testa indietro e solo il corpo davanti.

Al centro del palco a lottare contro il freddo c’era una straordinaria figura dialettale, indigena, un orco con lunghi capelli ricci sul viso, si mostrava nelle sue fattezze ancestrali al resto del piccolo mondo reale. Il mostro suonava, e suonava in trans, con un naso rosso a punta.

A destra rividi Rachele, con una pelle grigiastra come se ci avessero cosparso sopra della cenere. Era a casa sua nel ritmo, che il mostro guidava come fosse a capo di una intera industria di manovali.

Anche lei, che aveva evidentemente il cuore nei piedi, sembrava una lotta tra due cose rotte: anche lei, una parte animale, creatura antica del dialetto, i piedi appunto, ed una parte dell’oggi, che fugge dall’aggressività insita alla difesa, forse guidata dai capelli stavolta, neri come una maledizione, che inseguono famelici le note nell’aria.

Gli orecchini grandi che le pesano su ogni passo, l’orecchio che cresce, vuole essere occhio. Mi fissa anche lui, tutto di lei sembra guardarmi, ricambiare le stesse attenzioni che io le do.

Quando il pezzo terminò, i fari si riaccesero sul palco e puntarono al pubblico. Venimmo entrambi disorientati dalla luce, e come in un luogo che non si conosce e dove si aspetta di essere accettati, lei mosse dei passi inconsapevoli verso di me. In tutta quell’acqua di giallo e gente accecata io la afferrai per un braccio come fosse uno scoglio. “Getta l’ancora Ulisse” pensai. Lei mi riconobbe e mi salutò con un sorridente bacio sulla guancia. Rachele a volte si portava il fumo dietro, non lo faceva apposta, lei voleva profumare sempre, ma anche il fumo le amava la bocca, le gole, e chiedeva il suo giusto sacrificio. Ed io intanto lottavo fisicamente contro il processo di normalizzazione delle pupille, mi piaceva vederle la scia nel piccolo mare dove ci avevano buttati, perduti. Adoravo il non vedere nessun altro.

Ci siamo allontanati verso i bidoni accesi col fuoco, gli hanno intagliati con facce preistoriche, primitive, e c’è un ubriaco attorno che ci butta dentro del legno al volo. Troppo facile pensare alla stregoneria qui.

La paglia di fuoco si lanciava kamikaze aldilà dei bidoni, verso l’estinzione del cielo.

Tu hai iniziato a cantare, e cantavi lontano come se cantassi fin oltre le luci deboli del paese, come se gli girassi alle spalle, come se cantassi al tempo e non allo spazio. Io non ho fatto altro che starti affianco ad abbrustolire qualsiasi altra idea, di una qualsiasi altra azione possibile. Stavo, ero presente, e già il fatto di esserci mi sembrava importante, nel senso che dovesse importare anche ad altri e non solo a me.

Troppo facile pensare alla magia ora.

Non pensatelo.

 

*immagine tratta dal web

 


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