In "Radical chic" Wolfe ci descrive questa festa organizzata da Leonard Bernstein per raccogliere fondi per le Black Panthers, questi ambienti, i comportamenti dei salottieri newyorkesi e quelli degli afroamericani invitati. Un'analisi critica, per alcuni sociologica, che nella quarta di copertina dell'edizione italiana viene descritta come “esilarante”, ma non lo è.
Non lo è perché l'edizione della Castelvecchi è fatta male. Innanzitutto perché lo scritto di Wolfe è farcito di riferimenti culturali e sociali della New York degli anni Sessanta, sconosciuti ai più oggi. Personaggi, luoghi, fatti che meritavano qualche nota in più per essere capiti. Invece il lettore, cioè in questo caso io, si ritrova a leggere un pezzo che sa aver fatto la storia del giornalismo, ma non lo capisce, non coglie a fondo lo spirito. Coglie in parte cosa sia il new journalism, perché si dice: "Un pezzo così non potrebbe mai finire su un giornale qualsiasi, è troppo farcito di descrizioni, aggettivi e considerazioni". Un articolo così lungo, critico e mondano finirebbe in certi Dagoreport e certi Cafonal di Dagospia, con le foto di Umberto Pizzi (non a caso Roberto D'Agostino ha citato Wolfe ed è stato accostato a lui), o forse a volte anche su Il Foglio e Libero, negli articoli di Francesco Borgonovo, ma non altrove.
Però il lettore non può capire il senso dell'espressione radical chic, usata troppo spesso a cazzo di cane. Qui l'editore fa un altro errore, perché il sottotitolo fa riferimento ai "rivoluzionari da salotto", mentre sarebbe più opportuno parla di "salottieri rivoluzionari": il punto di partenza è il salotto, non la rivoluzione. L'aveva capita benissimo, solo due anni dopo la pubblicazione del reportage di Wolfe, Indro Montanelli, reazionario e conservatore quanto volete, ma che ha colto nell'istinto della borghesissima Camilla Cederna nell'articolo Lettera a Camilla sul Corriere della Sera del 21 marzo 1972. Per lui la Cederna era un'esponente del "magma radical chic":
"C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola “amore” si dia il suo significato cristiano di fratellanza [...]. Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga."Torniamo alla nostalgie de la boue, all'attrazione per il selvaggio, il degrado, quella sensazione che provavano coloni ed esploratori di fronte a indigeni e ai "buoni selvaggi". In sociologia si dice anche "miserabilismo". Da allora, da quell'uso che ne fece Montanelli, il termine è andato via via a indicare un certo conformismo nell'area di sinistra, un'attinenza modaiola alle idee più in voga in un momento. Ma per quello si può usare bene l'espressione "conformista", non "radical chic". Bisogna ricordare, come ha fatto Matteo Bordone, che in inglese l'aggettivo viene prima del sostantivo, e quindi si capisce che non è il "radical" a essere "chic", ma lo "chic" che diventa "radical":
"Le espressioni strascinate come le cime di rapa sono tipiche di chi fa il furbo o scrive molto male. Quindi radical chic va detto a chi è straricco, mondano, e abbraccia idee rivoluzionarie di estrema sinistra dal salotto di casa. Se si piega il sinificato verso il centro, si arriva a stabilire una serie di concetti assurdi, senza un che di logico o sostanziale, che finiscono coll’essere solo molto reazionari, oltre che fuori bersaglio: chi è rivoluzionario deve essere uno straccione per forza; chiunque abbia i soldi è partecipe della mondanità; chi ha i soldi deve essere di destra per coerenza; qualunque pensiero di sinistra è estremista e rivoluzionario. Tutto questo, come è evidente a tutti, è falso. È pieno di gente a sinistra che non ha nessuna idea da estremista o rivoluzionario, e ce ne sono anche che si rigirano nel conservatorismo più polveroso. Ci sono ricchi che non fanno alcuna vita mondana. Ci sono mondani poi non così ricchi. Ci sono mondani destri, sinistri, senza schieramento. Insomma, basta così".Sarebbe anche chiaro, però persiste l'abitudine a usare male l'espressione radical chic, soprattutto in certi ambienti conservatori e reazioni,. Luca Sofri ha riportato un'"Amaca" di Michele Serra sull'uso del termine fatto dal quotidiano berlusconiano per criticare "Vieni via con me", Fabio Fazio, Roberto Saviano e "il cast Roberto Benigni-Antonio Albanese-Paolo Rossi", che sarebbero “il tipico menù radical-chic”.
"Benigni, come sanno anche i sassi, è figlio di contadini toscani. Albanese di un muratore siciliano emigrato in Lombardia, Paolo Rossi di un operaio di Monfalcone. Artisticamente parlando di “chic” non hanno un bel nulla. (...) Tutti e tre sono di popolo e fanno arte popolare, parlano all’analfabeta quanto all’intellettuale.La formuletta comoda. L'espressione strascinata. Quante volte viene usata da certi personaggi e in certi ambienti. Nella fattispecie potremmo concentrarci e analizzare l'uso di "radical chic" su certa stampa tipo Libero e il Giornale. Non a caso è Massimiliano Parente, scrittore che pubblica proprio in quei quotidiani appena citati, che ha pubblicato "La casta dei radical chic" per la Newton & Compton. Ora, io questo libro non l'ho letto, ma a giudicare da quarta di copertina e recensioni, anche qui il termine è usato a cazzo di cane perché non si fa una critica di persone facoltose che abbracciano rivoluzioni, ma più generalmente l'ambiente culturale italiano, in un calderone in cui c'è dentro di tutto: Grande Fratello e Biennale d'arte a Venezia, Isola dei Famosi e Salone del libro di Torino, Annozero, Alessandro Baricco e Roberto Saviano (ancora, sic), tutti paraculi autoreferenziali e conformisti. L'unico su cui forse ci prende giusto è Walter Veltroni, che per estrazione sociale potrebbe quasi essere un radical chic in quanto figlio di un dirigente Rai e nipote di un ambasciatore. Ma basta. Dove sia la nostalgie de la boue e il miserabilismo non si sa.
Perché, allora, radical chic? Perché è una formuletta comoda per inscatolare le cose senza guardare quello che c’è dentro. Un professore di destra, in un dibattito di qualche anno fa, mi diede del radical-chic perché parlavo male del Festival di Sanremo e bene dei film di Kubrick. Gli chiesi se conosceva almeno una canzone di Sanremo, mi disse di no, che non aveva mai visto il Festival. Gli feci notare che io potevo cantargliene a memoria almeno un centinaio, quasi tutte disgustose. Chi era, tra noi due, quello chic?"
Stando a guardare la rassegna stampa, manco a dirlo, il libro di Parente è stato ben recensito da Il Foglio, Il Giornale e Libero. Paraculismo autoreferenziale e conformista anche quello.