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Ogni singolo sketch è studiato per divertire lo spettatore: sfacciate cattiverie e melodrammatico sentimentalismo costituiscono la spina dorsale di una non-storia irrorata da un cuore pulsante di musica jazz (e, in particolare, di Cole Porter). Radio Days, sia chiaro, non fa una grinza; ed è un piacere vederlo, anche per chi (come me) attribuisce alla nostalgia un sapore molto più casereccio alla Tornatore.
Memoria, forma e colori smaglianti, questo film di Woody Allen è molto vicino (non solo cronologicamente) al ben più importante Zelig e appartiene a quel ciclo di film con l'allora compagna Mia Farrow (qui, per forza di cose in una storia corale, meno "protagonista"). Rispetto al precedente capolavoro, però, Radio Days procede in modo più rapsodico e non solo per via della colonna sonora; soprattutto, mi sembra che restituisca meno gli anni del progresso e della disillusione tra le due guerre.
La stessa radio (che in molti oggi segnalano tra i media più in recupero, dopo anni di sconfitte cocenti da parte della TV) vi appare meno centrale che in un film ben altrimenti orientato come l'inglesissimo Il discorso del re. Per una cultura abituata a indagare con tutti i registri possibili sui mezzi di comunicazione e ai loro aspetti tecnici ed etici, mi sembra che Radio Days, con il suo taglio monodimensionale, perda smalto ed emozione. Un carosello di indiavolatissime battute - alcune anche da antologia - adatte a far serata che scorre via, senza arrivare a far presa sulla storia. Spettacolo di consumo di qualità, che ci vuole (e magari ce ne fosse di più, di altrettanto intelligente oggi!), ma che fa prestissimo a stancarmi.
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