Raffaele Ferrario, CREPUSCOLO DEGLI AFFETTI, L’Arcolaio 2011
Siamo stati attratti dalla morte, da una delle tante morti che le stagioni di passaggio ci presentano in vesti diverse, anche se poi scegliamo la più dimessa e fascinosa, quella in cui vediamo l’assoluzione dell’eccesso: la morte sociale. E non la vogliamo, in verità; ne siamo scelti, e lo capiamo solo dopo che ci siamo svegliati dal lungo cullarsi nelle cose minime della vita.
Quelli che muoiono veramente, rimangono icone, immagini inamovibili che per sempre splenderanno, redente dal giudizio dell’affetto. Rimangono esempi di possibili altri destini; o forse destinati a vivere fuori dal tempo per il crudele confronto di realizzazioni, fallimenti.
Il “mortale/non più” di questo libro è Michele. Noi possiamo riconoscerci negli altri componenti della triade che non hanno seguito lo stesso destino: Gabriele e Raffaele, ma che evidentemente hanno condiviso un intero mondo di luce accecante, di utopie reiette. Ora Raffaele erige un monumento di parole.
E come erigere un monumento immortale, un canto funebre da cantare a lungo, un requiem, se non scegliendo lo stile aulico del trionfo della morte medioevale, lei che cavalca sul campo sterminato di cadaveri esibendo il su suo corpo scheletrico e osceno? Come cantare la morte di Laura se non attraverso la metamorfosi della morte stessa “morte bella parea nel suo bel viso”?
Come cantare la morte di Beatrice se non ergendola a suprema tutela del poeta su un carro trainato da animali immaginari? Gli esempi potrebbero continuare.
Si può erigere un monumento a Dolore e Redenzione fatto di pietre e di parole. O di parole/pietre.
Ecco allora giustificato lo stile eccessivo di questa prova. La parola si storpia o si fa precisazione anatomica dello stato del cadavere, compiendo un percorso attraverso tre stadi di morte e rinascita, prima e dopo la dichiarazione petrarchesca “Michele è morto”: Metastasi, Estasi, Metamorfosi.
E’, semplificando, cammino dantesco verso gli stadi della glorificazione di un corpo enorme, srotolando simbolicamente una numerazione ascendente fino alla proclamazione più alta del lutto, per poi ridiscendere a ritroso, come appeso sul corpo villoso della bestia, fino a un tentativo di metamorfosi semifinale. Che è semplicemente un ritornare, dopo un viaggio di morte, tenendo in tasca un’idea di destino in più.
Questo destino è aver conosciuto lo splendore innominabile delle illuminazioni adolescenziali, “il mattino ha l’oro in bocca”, e di aver scoperto tragicamente dietro questo splendore di apparenza che, invece, “l’aurora ha il cranio spaccato”.
Nell’adozione di un apparato retorico fatto di metafore e immagini che non accettano l’immobilità del cadavere, vengono in mente i modelli letterari dell’urlo e del dolore contratto in grumi. Ma soprattutto il lamento ad Ignacio, di Garcia Lorca, con tutto quel chiamare all’appello, nel grande teatro funerario della mattanza, il rigoglio di una vita, l’esaltazione delle piaghe e delle smorfie come sontuosi trofei barocchi della carne corrotta.
Contro la perfetta indifferenza del corpo, del suo tornarsene alla terra, si contrappone l’erezione del santuario magnifico, il surrealismo del canto funebre, perché sia possibile dare rappresentazione anche dell’indicibile senso della morte.
Sebastiano Aglieco
*
Metastasi
A notte fonda
ti portarono all’obitorio,
giovane notte d’estate.
Non aveva che due tasche
e dieci anni per ciascuna.
Tasche sfonde,
foderate di ghiandole amare.
Un odore dolce di clamore
e di bacche di sambuco,
il lavoro dell’ampiezza
e il sudario che non riusciva
a contenere il sogno
dentro l’orto del dolore.
Il corpo cavernoso
deportato in cielo.
Nell’autunno del tuo sangue
ti mormora l’orecchio
un lutto acerbo.
La palpebra è una saracinesca
d’acqua muta, in cui drenare
il torsolo del male.
*
Cado nella tua altezza
di assopita durata
dove rimani chinato.
Il passato, il passato
che diaspora
quello che è stato.
Il tempo perdura
vincolo di un assedio remoto
e il mio atto
non si promuove a licenza.
Il mio cuore è tutto in ordine
come un lenzuolo dopo l’amore.
*
Un mortale
non più.
Il setaccio ameno dietro il fiume
che straripa e cade
insieme ai vivi,
insieme ai morti del terreno.
Il muco caustico dell’orco
visita il tuo addome
e della carne fa uno scalpo
pendulo di brani,
anch’esso molo di gradini arcani.
*
19
Appari nudo
sotto l’autunno che splende.
le foglie disgelano
tutto il tuo splendore.
Ti vesti del penetrante
colore autunnale,
sei la mia fede
di una cosa perduta.
Ascolta il pettegolezzo del vento,
vocifera cose a te care
mio plastico usciere del firmamento.
L’accordo fa essere il mondo
e consente al mondo di averti.
Tutto ritorna in un reciproco corso.
La linea meridiana
ha nome rimorso.
*
Estasi
Serbando vedo
lo spettro che ti attrae
nella cuffia dell’aurora
la roccia trapassa le acque.
Io sono Raffaele
Gabriele
Michele
Elis è Michele.
Io sono tutti i punti dell’Area
del periplo cosmico.
La mia terra che premo
conduce l’orma sonnambula.
Io sono tutti i margini
dello splendore.
sono la placenta di tutte le bibbie.
E infine io sono mio figlio
mio padre
mia madre
Io sono la foce del giorno.
Raggiungete i vostri villaggi.
l’aurora ha il cranio spaccato.
Michele è morto.
*
1
Respira,
non avere paura dell’aria.
Parti ma non lasciarmi.
Guardati attorno, scegli la tua tana.
Per quanto vivi e in alto voli,
sorridendo e piangendo,
e tutto quel che tocchi
e tutto quel che vedi,
è la vita che non avrai.
Corri ragazzo, corri.
Scava una buca e dimentica il giorno.
Non riposarti,
è già ora di scavarne un’altra.
Per quanto vivi e in alto voli,
cavalcando la corrente
sull’onda più estrema.
Corri verso una tomba precoce
Michele