Per scrivere ci vuole la lettura e il motivo per il quale Raffaele Riba ha deciso di diventare uno scrittore è soprattutto per umanità, per riuscire a far provare al lettore, anche solo per un istante «una specie di commozione, bella, forte, totale». In questa intervista ci parla di scrittura, lettura, del suo libro Un giorno per disfare, dei suoi esordi con il concorso 8×8, dei suoi progetti. Sul suo comodino ci sono Francesco Maino, David van Reybrouck e Roberto Bolaño.
Raffaele Riba
Hai 31 anni, sei nato a Cuneo, vivi a Torino, lavori alla scuola Holden. Che cosa aggiungeresti a questa brevissima nota biografica?
Nulla, forse c’è già troppo.
Tempo fa ho letto questa affermazione di Alessandro Baricco: «Per scrivere ci vuole follia, arroganza, direi perfino megalomania, perché se non hai un’alta idea di te stesso non cominci a scrivere un romanzo». Per te quali sono o dovrebbero essere gli ingredienti indispensabili per diventare uno scrittore?
Se vuoi scrivere hai già tutta una serie di cose dalla tua, la motivazione per esempio, inutile ritornarci. Quindi rimane un unico ingrediente, quello fondamentale (ma ai livelli della pasta per fare la carbonara): la lettura. In ogni sua forma, in tutte le salse. Una gran banalità. All’apparenza.
Sei uno scrittore per vocazione, necessità o casualità?
In una delle prime lezioni universitarie a cui ho assistito, vidi un’intervista a Ungaretti. Voce roca, dizione rimarcata sulle allitterazioni e i giochi di lingua, occhi semichiusi e incastrati in fessure strette per le rughe. Mi ricordo bene che, in un momento della lettura de I fiumi, sentii una specie di commozione. Bella, forte, totale. Sono tanti i motivi per cui scrivo, mi piace pensare che sia soprattutto per umanità, ma sicuramente inseguo l’obiettivo di far provare, anche solo per un attimo, anche solo a una persona, quella sensazione meravigliosa avvertita ascoltando Ungaretti. Sarebbe bello, un gesto umano appunto.
Lavorando alla scuola Holden sei a contatto quotidiano con la scrittura e le aspirazioni di molti di farne un mestiere. La mia domanda forse può apparire provocatoria, ma a che cosa servono le scuole di scrittura? Il talento non si insegna, così come non si insegna il modo per farsi pubblicare, o mi sbaglio?
No, non ti sbagli affatto. Non si insegna né il talento né il modo di farsi pubblicare. Chiunque vada in una scuola di scrittura per questo motivo ne sarà assolutamente deluso. Come dici nella formulazione della domanda, però, nella scrittura c’è anche una porzione di mestiere. Come per chi scrive sceneggiature o articoli di giornale o quarte di copertina, è necessario imparare, rispettare, riproporre o giocare con un certo canone; così, chi si mette lì a scrivere un romanzo o un racconto, deve sapere che ci sono delle dinamiche, dei movimenti, atavici e animali, che se rispettati creeranno una reazione nel lettore. Lo aveva capito bene Propp (per non parlare di Aristotele). In Italia abbiamo una tradizione letteraria molto pesante, qualcosa di quasi cartesiano che separa la lingua letteraria dall’altra. Spesso ci si accanisce su questo aspetto, arrivando a pensare che la scrittura sia praticamente l’unica disciplina umana che non si possa insegnare, salvo poi scoprire che a sostenerlo spesso sono anche quelli che leggono, amano, esaltano, scrittori che hanno frequentato scuole di scrittura come Wallace o Ellis (La scopa del sistema e Meno di zero, in pratica erano le loro tesi di laurea). Le scuole di scrittura insomma sono una sorta di catalizzatore, accelerano i tempi, ti permettono di acquisire strumenti critici che puoi utilizzare una volta che ti andrà di provare a scrivere a tua volta. Se dovessi cominciare a scolpire, non sarei mai in grado di fare il David, ma avrei bisogno di qualche nozione di base da cui partire, sarebbe presuntuoso pensare di non averne bisogno. Per fare il David o Meno di zero o La scopa del sistema non basta certo il mestiere, ci vuole quella cosa che chiamiamo talento, ma che in realtà io riconosco più nel termine sensibilità o sguardo. Quelli ce li hai o no. Non vorrei con questa risposta ottenere il suo contrario, ovvero fare un’apologia delle scuole di scrittura o dire che sono indispensabili. Non è affatto vero. Ma chiunque voglia mettersi a scrivere non pensi che basti farlo e basta, che Bolaño o Volponi non avessero un gran mestiere (erano semplicemente e seriamente autodidatti) pur non avendo frequentato scuole. Approcciarsi con un certo grado di coscienza alla scrittura (come a molte altre cose) è una questione che ha a che fare con il rispetto, con una specie di deontologia: ovvero la responsabilità nei confronti di chi dovrà spendere dei soldi e del tempo per leggere le tue cose.
Da una parte ci sono le scuole di scrittura con costi di iscrizione anche elevati, dall’altra ci sono i forzati del self publishing, sempre più numerosi e incoraggiati dalla prospettiva di celebrità a costo zero e senza intermediari. Sono manifestazioni, a mio parere, di una medesima ossessione: voler fare a tutti i costi lo scrittore. Se tutti gli “scrittori” italiani leggessero almeno un libro l’anno, le cifre sull’andamento del mercato editoriale schizzerebbero ai vertici della classifica. A parte la provocazione, che cosa ne pensi?
Penso che tu abbia assolutamente ragione, penso che se dovessi ripetere la domanda userei le tue stesse parole, le tue stesse provocazioni e i tuoi stessi principi di discussione. Non si può scrivere senza leggere, così come non si può imparare a parlare senza averlo sentito fare dai propri genitori, fratelli o sorelle. Si agisce per imitazione fin dall’infanzia. Chi scrive senza leggere fa un movimento innaturale che ha a che fare solo con la vanità.
In Italia si pubblicano più o meno 60.000 titoli l’anno. Un numero che fa impressione sempre in relazione alla percentuali di lettori. Secondo gli editori è questo l’unico modo per rimanere a galla. Secondo te, invece, in qualità di scrittore?
Per come è strutturato ora il mercato editoriale credo abbiano ragione. Bisognerebbe avere la possibilità (non credo sia solo una questione di coraggio) di smontare qualche passaggio e riprendere un’altra strada, un po’ come compromettere una faccia del cubo di Rubik per completarne un’altra. Se poi devo pensarla da lettore, più che da scrittore, credo che questo sistema non faccia altro che essere controproducente. Il lettore che entra in libreria è smarrito: troppa offerta, poche guide sicure perché sovrastate dal frastuono del marketing e troppi titoli magari fantastici che non riescono a ritagliarsi un piccolo spazio sui banconi. Per far ordine ci vorrebbe una catastrofe Malthusiana però.
Raffaele Riba alla finale di 8×8, 2011
Il tuo rapporto con la casa editrice 66thand2nd nasce con Leonardo Luccone di Oblique. Un legame professionale che risale a una delle prime edizioni del concorso letterario 8×8, la felice iniziativa per scovare giovani talenti. Come è andata esattamente?
Quando scoprii dell’esistenza dell’8×8 mandai un racconto. Non fu selezionato neanche di striscio. L’edizione successiva volevo riprovarci, ma una specie di resistenza dettata probabilmente dalla paura di non farcela di nuovo mi bloccò fino al penultimo giorno utile per inviare i racconti. Mi dissi che ero veramente un cretino. Così mi misi a scrivere un racconto che avevo in testa da un po’. Lo inviai e andò bene, vinsi la terza edizione. Da lì, grazie anche al senso della gestione e al dialogo con la pazienza che uno come Leonardo ha e con cui ti obbliga a fare i conti, nel tempo sono nate molte cose. Un racconto pubblicato su Watt, un contratto di rappresentanza e un lungo lavoro di confronto su quello che poi sarebbe diventato Un giorno per disfare. Da quel racconto alla pubblicazione del libro sono intercorsi circa cinque anni. E sono stato anche abbastanza fortunato. Senza Leonardo probabilmente sarebbe andata diversamente.
L’idea intorno alla quale hai costruito Un giorno per disfare ha avuto una lunga gestazione, era già presente nel racconto Eloquenza delle nature morte pubblicato su Watt. È come se non avessi voluto separarti dall’idea, preferendo espandere l’impalcatura originaria piuttosto che costruirne una nuova.
No, Watt è capitato in mezzo a un cantiere. Quando scrivo, scrivo quella cosa e basta, per ora è così almeno, non sono ancora abbastanza bravo per scrivere più cose contemporaneamente. Mi devo immergere completamente e non riesco ad avere la concentrazione necessaria per farlo in due o tre “posti” diversi. Per cui, quando mi è stato chiesto un racconto per Watt, non ci pensavo nemmeno a farmi scappare l’occasione e ho inviato le 35.000 battute che avevo già pronte. Avevano un inizio e una fine perché per questa storia ho lavorato così, come gonfiando un palloncino.
L’incipit di Un giorno per disfare è una sequenza fotografica, cinque scatti sul tentato suicidio di Matteo Danza. Fotografia e scrittura, due differenti forme di comunicazione, di espressione artistica. La fotografia sembra costringerti alla verità, con la scrittura invece si può anche evitarla. Qual è il tuo rapporto con l’immagine?
Non ho gran dimestichezza con la fotografia, anzi sono proprio disastroso quando si tratta di scattarne una. Eppure, grazie al cinema o direttamente grazie al fatto che la nostra vista è di gran lunga il senso più sviluppato, la porta principale, diciamo, io, come penso la maggior parte delle persone, quando devo concretizzare la fantasia passo da lì. Dalle immagini. Credo sia un processo naturale e necessario. Certo poi è anche molto divertente andare oltre.
Spendiamo qualche parola sul libro. A colpirmi, tra le altre cose, la costruzione per segmenti che si intersecano ma anche per linee parallele. Il nucleo è la vicenda di Matteo Danza, da cui ha inizio e fine il libro, nel mezzo hai costruito grappoli di altre storie, più o meno collegate al nucleo. Una struttura geometrica, poliedrica, che ti ha consentito di affrontare numerosi argomenti contemporaneamente. Era questa la tua intenzione?
Inizialmente no. Con un gesto, i quattro personaggi principali si passavano la storia l’un l’altro, come in una staffetta. Poi o il romanzo avrebbe avuto dimensioni bibliche oppure, visto che poi non è stato coì, sarebbe stata un’assurdità accompagnare il lettore con una voce per 40 pagine, poi con un’altra per altre 40 e così via. Non avevi il tempo di abituarti e immergerti che già dovevi cambiare casa. Allora ho pensato che modificare la struttura, giocare sull’entrelacement potesse essere una buona soluzione. Il prossimo romanzo sarà decisamente diverso.
Tutti i personaggi, ognuno per le sue ragioni, non sembrano incontrare la felicità, impegnati come sono a difendersi, a fuggire, oppure a sopportare il dolore che li circonda. Non c’è più spazio per la felicità in questi tempi?
Si, è vero, ma sono personaggi alla disperata ricerca della felicità, sanno che potrebbe essere vicina, la cercano con tutta la forza che hanno, la desiderano. C’è spazio eccome per la felicità, solo che bisogna condividerlo con il tempo che ci si mette per arrivarci.
Nel libro si incontrano anche molti animali, di cui Matteo Danza spiega molto bene l’essenza: gli animali si limitano a lottare per la sopravvivenza, senza coscienza e senza scelta, perché il loro ciclo evolutivo si è fermato a quel livello. Quello dell’uomo, invece, si è inceppato, è finito in un vicolo cieco. Quindi non c’è più speranza?
No, la speranza c’è eccome. Sta tutta nel gesto di Matteo. Matteo prova in tutti i modi a lanciare un messaggio e alla fine ci riesce. Il messaggio dice pressappoco che conoscendo un po’ meglio i meccanismi che ci regolano, ma quelli veri, non presunti, avremmo in mano molti più strumenti per capirci, scusare certe cose di noi prima di porvi rimedio, di vivere meglio. L’etologia andrebbe insegnata nelle scuole. Aiuterebbe a capire tutte le altre materie.
Il mantra ricorrente di questi tempi, per contrastare la crisi, è fare rete, organizzarsi, unirsi. Com’è la situazione per i librai indipendenti di Torino?
Ci sono alcune realtà che lavorano molto bene. Non solo facendo rete, non credo. Sono riuscite a creare un rapporto di fiducia con le persone che le frequentano. Chi ci va si fida e loro, certo, non dormono sugli allori. Si danno da fare perché è la cosa che amano fare. Una gran fortuna per tutti.
Come deve essere la tua libreria ideale?
Una libreria intelligente che mi suggerisca dei libri facendomeli apparire come per magia sotto gli occhi. Comunque, riordinando la mia di recente ho fatto un esperimento. L’ho sistemata per aree geografiche (di provenienza dell’autore) dagli Stati Uniti al Giappone, creando una serpentina tra gli scaffali che collega tutto il mondo. Vengono fuori cose meravigliose, collegamenti mentali, una continua sfumatura culturale che non avevo mai pensato quando avevo i libri disposti per ordine alfabetico o per editore.
Che tipo di lettore sei? Ad esempio, leggi un libro alla volta, arrivi fino alla fine anche se non ti piace?
Una volta si, arrivavo alla fine, anche se non mi piaceva. Poi, come Jack Gambardella ne La grande bellezza, ho capito che non si può sprecare del tempo a fare cose che non ti va di fare: c’è poco tempo, bisogna sfruttarlo. Rimango restio ad abbandonare un libro, ma quando capisco che proprio non siamo in linea lo faccio. Solo questo è il discrimine, ma lo faccio. Di solito poi leggo tre o quattro libri contemporaneamente. Il tempo è sempre quello, nessuna nota di merito, questo modo però mi consente di sfruttare la gamma di sentimenti possibili e accordarli coi libri. Questa sera sono incazzato, leggo Bernhard, questa sera sono in pace col mondo leggo Vonnegut. Così.
Il libro che devi ancora leggere e quello che non avresti mai voluto leggere?
Un amore di Dino Buzzati. I dispiaceri del vero poliziotto di Roberto Bolaño, facile immaginare il perché.
Puoi darci qualche anticipazione sui tuoi progetti futuri?
Certo, in estate ho lavorato su una voce per il Dizionario animalesco, di prossima uscita per Bompiani. Ora, invece sto scrivendo un libro per la casa editrice Loescher che finirà in una collana nata per adattare grandi classici, creando un link tra loro e i lettori giovani. S’intitolerà Abbi pure paura. Devo consegnare a gennaio. E poi riprenderò a scrivere il secondo progetto che avevo in testa fin dai tempi di Un giorno per disfare, una storia sulla fratellanza, in cui i due personaggi principali (saranno un po’ un Caino e un Abele, un Caifa e un Primo Levi) oscilleranno pericolosamente sul confine tra amore e odio (sempre assoluti e totali come può accadere solo tra fratelli). Un percorso condizionato da piccole porzioni di caos che li faranno passare da un lato all’altro della gamma sentimentale umana, fino a un epilogo che, per ora, tengo per me.
Che cosa c’è da leggere sul tuo comodino in questo momento?
Cartongesso di Francesco Maino, Congo di David van Reybrouck e per l’ennesima rilettura La parte di Arcimboldi di Roberto Bolaño.
La recensione di Un giorno per disfare.