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Raimondello e la cattedrale di Santa Caterina d’Alessandria

Creato il 09 luglio 2014 da Cultura Salentina

Raimondello e la cattedrale di Santa Caterina d’Alessandria

9 luglio 2014 di Augusto Benemeglio

Chiostro di Santa Caterina d'Alessandria a Galatina (®Wikipedia)

Chiostro di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina (®Wikipedia)

Raimondello Orsini Del Balzo è stata una delle figure più importanti nella storia del Mezzogiorno tra il XIV e il XV secolo ma di lui non c’è traccia nell’archivio del Regno di Napoli (sono scomparsi tutti gli atti della sua amministrazione non solo come feudatario della contea di Soleto, che aveva occupato militarmente ma anche come Principe di Taranto), probabilmente perché cancellate ad arte, una sorta di damnatio memoriae ordinata dal re Ladislao I, con cui ci furono molti dissapori.

Ma grazie alla Basilica di Santa Caterina d’Alessandria, unica in Italia e in Europa — sostiene Dinko Fabris — per la ricchezza degli strumenti musicali medievali nei suoi affreschi, una vera e propria Bibbia pauperum un abbecedario di storie bibliche e agiografiche, adattato con fine intuito alla capacità intellettiva di tutti, troviamo la sua immagine, la sua tomba e rimane ancora vivo il suo nome, insieme a quello della moglie, contessa di Lecce Maria D’Enghien e del figlio, Giovanni Antonio che completarono la cattedrale ed ebbero la straordinaria intuizione di chiamare maestranze di scuola senese e un artista come Roberto d’Arezzo, di scuola giottesca, che contribuì non poco a realizzare una delle magnificenze dell’arte italiana, seconda solo alla Basilica di San Francesco d’Assisi.

 

Il morso da sciacallo
Si narra che Raimondello Orsini del Balzo ( derivato dal francese De Baux, nome della madre e dello zio materno che lo adottò ) di ritorno dalla Terrasanta decise di far costruire a Galatina la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria, la martire orientale, condannata alla ruota al tempo di Massimino, di cui aveva trafugato un dito ( mentre baciava la mano della Santa lo aveva addentato e staccato di netto con un morso formidabile, da sciacallo del deserto, e poi tenuto in bocca per tema che se ne accorgessero) reliquia che portò con sé e che ora si trova e si conserva – incastonata in un reliquiario d’argento, – nel tesoro della chiesa. Il feudatario disse che aveva fatto tutto ciò per sciogliere un voto solennemente pronunciato sulla sommità del Sinai ai piedi del Monastero della Santa (fatto erigere dall’imperatrice Elena nel IV sec), ma in realtà — leggenda a parte — ( pare addirittura che Raimondello non ci sia mai stato in Terrasanta e in quello stesso periodo fosse in Prussia a farsi le ossa e un curriculum come “cavaliere”, secondo l’usanza del tempo ), le ragioni per l’edificazione di una terza chiesa in Galatina erano diverse e molteplici. Forse Raimondello volle, -come disse Benedetto Vetere entrare nella scia dei filosofi degli umanisti, dei grandi mecenati dell’arte e della cultura ma soprattutto volle contrastare l’imperante rito greco degli officianti nelle due altre chiese già esistenti, la Matrice e quella dedicata a San Giovanni. Il greco era una lingua sconosciuta alla famiglia feudataria, la Santa Messa doveva essere officiata in latino.

 

Maria D’Enghien

I lavori cominciarono sul finire del ‘300, ma Raimondello non ne vide la fine, morì a Taranto nel 1406 mentre infuriava la battaglia a Taranto contro Ladislao I, che pretendeva la restituzione della città “spartana”.
L’interno era stato già completamente affrescato verso la fine del Trecento da maestranze locali, pitture che non furono apprezzate dalla vedova la quale decise di far completamente riaffrescare l’edificio (siamo nei primi decenni del Quattrocento) e quindi giunsero artisti da varie zone della penisola: maestranze di scuola giottesca e senese e un certo Franciscus De Arecio (Francesco d’Arezzo). Le influenze giottesche sono particolarmente visibili negli affreschi delle vele della seconda campata nelle quali sono raffigurati i sette sacramenti. Gli elementi di scuola senese sono riscontrabili in alcuni affreschi dell’ambulacro sinistro: per esempio nella scena raffigurante l’Annunciazione si possono notare i colli dei personaggi un po’ allungati, elemento caratteristico delle pitture senesi di quel periodo. La committente degli affreschi voleva trovare un motivo risolutivo delle sue ansie terrene in una soluzione trascendente le vicende umane e scelse l’Apocalisse giovannea un libro misterioso, scritto in un linguaggio misterioso, proprio della profezia; il suo situarsi all’ingresso della chiesa, è già un forte richiamo ad un legame originario che unisce l’umanità di tutti i tempi nell’anelito di una catarsi cosmica, nell’ultimo dei giorni, allorché il Cristo si rivelerà una seconda volta (apocalisse significa “rivelazione”), e sarà l’ultima. E non a caso le scene dell’Apocalisse costituiscono il ciclo pittorico più vasto di tutta la chiesa, occupano la prima campata ed evocano i temi più importanti e le principali allegorie del grandioso libro di San Giovanni: La Caduta di Babilonia e il Trionfo dell’Agnello, il Giudizio della Meretrice e quello Finale, l’Incoronazione del Vincitore e la Cavalcata Celeste. Le immagini della otta tra il bene ed il male, fra Cristo e la Bestia fra la Donna Apocalittica e la Meretrice, traducono in modo plastico e cromatico tutto il mondo tormentato dell’infelice regina Maria D’Enghien e della sua famiglia, forti passioni come l’amore, l’odio, la morte, vittorie e sconfitte, trionfi e umiliazioni.
Sulla volta sono rappresentatele virtù; la Genesi è sui muri della seconda, con il Trionfo della Chiesa e i Sacramenti sulla volta. La vita di Gesù è sulle pareti della terza campata, con i Cori angelici sule vele della volta; il martyrologium di S. Caterina è sulle pareti del presbiterio, con i Quattro Evangelisti e i Dottori della Chiesa sulla volta, Vita della Madonna, tratta dai vangeli apocrifi e da quelli canonici è sulle pareti e sulla volta della navata destra.

 

Galatina come Assisi

Quasi nascosta in una piazzetta del centro storico di Galatina, una modesta facciata in stile gotico-romanico con un rosone come tante chiese hanno, e poi dentro… l’inatteso: tre navate ricoperte di affreschi dalla base alla volta.Tutta da guardare con la testa rivolta in alto, dalla pavimentazione al soffitto, si srotola un universo di esistenze affrescate, di storie da raccontare, una rara meraviglia, una rara bellezza. Ricordo la prima volta che la visitai nel lontanissimo 1978, la chiesa non era ancora stata restaurata e resa luminosa com’è ora. Tuttavia rimasi incantato, affascinato dalla vastità e dalla qualità dei cicli pittorici molti di essi di evidentissima scuola giottesca, estasiato dalla bellezza dell’insieme dall’oro che spargevano gli angeli musicanti, il suonatore di flauto-cornamusa e il Coro. Come può un ‘ opera d’arte di tale spessore essere quasi ignorata dai libri di storia dell’ arte?, mi disse Emanuele Bari, funzionario di Nardò che mi ci aveva portato. Abbiamo l’oro tra le mani e non ce ne rendiamo conto. E’ vero. Merita il viaggio, – dissi io -, qualsiasi viaggio, sembra davvero Assisi. Ed ecco apparire dal fondo della navata il “poverello”, e con le sue braccia sommerse sembrava formare l’arcata d’un ponte improvvisato, che lega le due città, che potrebbero essere — perché no? — gemellate nel segno dell’arte religiosa.


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