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Raiuno: "Mission" non reality ma racconto di vita nei campi profughi

Creato il 05 agosto 2013 da Nicoladki @NicolaRaiano
«Il 4 e l’11 dicembre prossimo, in prima serata, Rai 1 proporrà Mission, un programma prodotto in collaborazione con l’Unhcr e Intersos. Otto "celebrities" racconteranno la loro esperienza vissuta nei campi profughi visitati in giro per il mondo. Un programma che punta l'attenzione sulle realtà di assistenza nelle missioni umanitarie con l'obiettivo di contribuire ad una straordinaria campagna di sensibilizzazione su temi internazionali, troppo poco considerati. Le otto celebrities vivranno 15 giorni insieme ai volontari che lavorano nei campi profughi e si immergeranno in una realtà umana e ambientale piuttosto dura. Mali, Sud Sudan e Congo, queste alcune aree che verranno visitate e raccontate. Nel programma non è previsto alcun elemento di gioco ma verrà proposto unicamente il racconto in immagini. In studio, invece, verranno approfonditi i temi legati al mondo dei rifugiati attraverso le testimonianze di chi ha vissuto un periodo all’interno dei campi profughi».
Lo ricorda Rai 1, in una nota, dopo le polemiche sul programma sollevate da alcune associazioni umanitarie.
Molte associazioni e organizzazioni non governative hanno infatti bocciato il programma come «inaccettabile» e «lesivo della dignità di chi deve fuggire dal proprio paese a causa di guerre o persecuzioni». Anche la rete si è mobilitata, con due petizioni online per stoppare il programma. Di tutt'altro avviso i promotori, come Intersos, convinti sia un modo «per dare riconoscimento ai profughi e sensibilizzare l'opinione pubblica».
«La strumentalizzazione è di chi parla ora senza aver visto e capito il programma», aveva replicato Emanuele Filiberto di Savoia. «Forse è vero che al peggio non c'è mai fine, ma questa cosa è incredibile», tuona il Gruppo Umana Solidarietà (Gus). «Fermatevi!!», è l'invocazione. «Siamo una Ong che si occupa di profughi in Italia da ormai vent'anni e all'estero facciamo cooperazione con un'idea differente dal facile pietismo. Abbiamo difficoltà, nel nostro lavoro quotidiano, anche perché non abbiamo il supporto di una comunicazione oggettiva e spesso ci troviamo a gestire le conseguenze di articoli o servizi che cercano lo scoop su questa o quella organizzazione o su questo o quel gruppo di migranti», afferma il Gus.
«Siamo certi - proseguono - che anche il Papa, nel suo recente viaggio a Lampedusa, non si riferisse a un 'reality', quando auspicava e desiderava che si ponesse attenzione al dramma di chi fugge dalla propria terra, ma forse siamo noi a sbagliarci. Abbiamo difficoltà a credere che gli ideatori di questo programma abbiano mai visto territori martoriati dalle guerre o fatto esperienze di Cooperazione internazionale. L'aiuto ai popoli in fuga, ai profughi nei campi di accoglienza non passa da uno spettacolo che cerca di impietosire il pubblico di casa al quale chiedere poi un sms 'solidalè a favore di organizzazioni che, con una mera operazione commerciale, hanno reso possibile questo programma».
«Se la Rai avesse voluto raccontare il lavoro di tante Ong nei territori di guerra o nei campi lo avrebbe potuto fare in altri modi». «Purtroppo - conclude il Gus - si è spesso dedicata, anche nelle ultime emergenze, a far vedere gli sbarchi e poco più e ad amplificare le polemiche di italiani contro i migranti, di poveri contro disperati».
Dello stesso avviso padre Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati. Non ci sta alla spettacolarizzazione del dramma di migliaia di persone che soffrono perché costrette a lasciare la propria terra. «Tutto ciò che finisce in televisione - dice il gesuita all'Adnkronos - diventa spettacolo, al di là delle intenzioni di chi vorrebbe portare all'attenzione dell'opinione pubblica la vita di queste persone. Il pericolo è di provocare l'emozione dello spettatore per il solo tempo della visione, poi si cambia canale e si passa ad altro».
A padre La Manna, da una vita impegnato al servizio dei rifugiati, "Mission" ricorda un programma di qualche anno fa, ambientato a Parigi, che offriva la possibilità di vivere per qualche giorno l'esperienza di un clochard. «Peccato - dice - che dopo il protagonista di turno tornava nel suo bell'albergo a 5 stelle». E allora «è vero che molti sono alla ricerca di esperienze forti, ma bisogna chiedersi come sensibilizzare la gente, non solo a livello emotivo. La nostra posizione è quella di promuovere un incontro diretto fra i veri rifugiati e le persone in un contesto però - ammonisce - dove diritti e dignità siano salvaguardati». «Ci chiediamo che senso abbia tutto questo - prosegue - quale sia l'intento. Facciamo in modo che i protagonisti veri siano testimoni della loro esperienza. Noi lo facciamo con incontri nelle scuole, dove possono raccontare la loro esperienza. Dove è tutto vero».
Si chiede Padre La Manna: «perché la signora benestante si commuove e invia i due euro con l'sms solidale per i poveri profughi afghani visti in tv, e poi la stessa signora incontra gli stessi ragazzi fuggiti dal loro paese, che vivono e dormono sotto la stazione Ostiense di Roma, non si commuove più?. La Rai - conclude - poteva fare un documentario senza usare Vip. Così è inevitabilmente una cosa artificiosa, dietro la quale c'è sempre l'interesse di fare ascolti. E non si può sensibilizzare davvero su un tema se a muovere tutto ci sono logiche di mercato». «Tutto questo mette grande tristezza», conclude.
«Il reality «sicuramente potrà avere un effetto positivo, quello di far conoscere al grande pubblico il tema dei rifugiati, in un contesto caratterizzato da una totale penuria di spazi informativi. Ma il prezzo da pagare è, per noi, troppo alto», commenta Christopher Hein, direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir). «Il rischio di strumentalizzazione, di un utilizzo inappropriato di immagini, storie e pezzi di vita di persone in condizione di estrema vulnerabilità, è davvero elevato».
«Qual è il messaggio che verrà fatto passare? E quale è il costo che i rifugiati coinvolti dovranno pagare?», si chiede Hein. «Il reale cambiamento comunicativo è quello di riuscire a parlare dei rifugiati non attraverso un uso spettacolaristico delle loro storie, ma riuscendo a cambiare la cultura dei media in questo paese». «E come Consiglio Italiano per i Rifugiati non crediamo davvero che questo programma possa raggiungere questo obiettivo».
Contro "Mission" si muove anche la rete, dove sono già due le petizioni online per chiedere lo stop del reality. La prima, lanciata sulla piattaforma Change.org, chiede alla Rai di «fermare questo scempio che specula sul dolore della gente e spettacolarizza i drammi umani di chi vede ogni giorno negati i propri diritti!».
L'altra petizione è lanciata dal sito Activism.org per chiedere «l'interruzione delle riprese, la sua cancellazione da parte della Rai e un passo indietro da parte dell'Unhcr». «Riteniamo inaccettabile che la tv pubblica realizzi questo progetto. Lo sfruttamento della sofferenza cui sono sottoposti i profughi a fini di spettacolo - si legge - non può essere tollerato ed è per noi motivo di indignazione». «Ancor più inaccettabile è il comportamento di Unhcr e Intersos, che si sono prestate a questa iniziativa, rinnegando i valori di umanità ed etica professionale che dovrebbero caratterizzarle».
«A tale proposito ricordiamo la Carta di Roma del 2008, ossia un protocollo deontologico concernente l'utilizzo dell'immagine e dell'identità di rifugiati, richiedenti asilo, migranti e vittime di tratta redatto dall'Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana in collaborazione proprio con l'Unhcr». «Esistono altri codici per fare informazione - prosegue il testo della petizione - e dare visibilità alle varie comunità di rifugiati nel mondo. "Mission" servirebbe piuttosto a rilanciare l'immagine dei cosiddetti Vip, non certo darebbe una spiegazione delle cause dall'origine della condizione di queste persone, dei problemi che affrontano quotidianamente, delle loro prospettive per il loro futuro. Perché la Rai non realizza dei documentari o dei reportage al posto di un becero reality? In Italia abbiamo le risorse umane per fare dell'ottima informazione, che non necessariamente deve essere noiosa».
«Quando abbiamo deciso di aderire a questo esperimento di comunicazione eravamo ben consapevoli di esporci a critiche, commenti e di suscitare interrogativi purtroppo, anche qualche insulto», afferma Marco Rotelli, Segretario generale di Intersos, Ong impegnata in 30 paesi nel mondo. «Da molti anni le organizzazioni umanitarie dibattono sulla comunicazione, su metodi e limiti del loro rapporto con il pubblico. Quanto alle crisi umanitarie, l'opinione condivisa da molti è che se ne parli troppo poco: tranne in rare eccezioni, solo quando gravi tragedie scuotono le emozioni del grande pubblico e si accende la luce mediatica sulla sofferenza di milioni di persone, altrimenti dimenticate».
«Proprio per dare riconoscimento a queste persone, in particolare ai rifugiati - spiega - abbiamo accettato di partecipare al programma». «Molti giornalisti della tv, della radio, della carta stampata e più del web ci hanno cercato, sono venuti a trovarci nei programmi in vari paesi, hanno condiviso con noi fatica, passione, pericolo, successi, frustrazioni, competenza e talvolta fallimenti. Purtroppo, raramente tutto questo è potuto esser trasformato in un messaggio, un'informazione destinata a molti. L'umanitario è sempre rimasto nelle ultime pagine dei giornali quotidiani, nei piccoli box a margine dei settimanali o nei programmi della mezzanotte della tv».
«Noi sappiamo con certezza che quel che facciamo è importante, vitale, essenziale, oltre che meraviglioso», spiega ancora Rotelli. «Per questo vogliamo portare questo messaggio e questa consapevolezza alla gente che oggi non li trova nell'informazione. Ci è stata offerta questa possibilità. L'abbiamo valutata, considerata rischiosa per l'immagine dell'organizzazione ma unica per il potenziale di diffusione che portava con sé. Abbiamo quindi chiarito bene le cose, gli obiettivi, i limiti e le modalità, a garanzia di tutto quello che cerchiamo quotidianamente di salvaguardare, a partire dalla dignità di ogni essere umano. Infine, abbiamo deciso di partecipare. La causa ci è sembrata più importante dei rischi di una simile operazione», conclude.

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