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"Randagio è l'eroe" di Giovanni Arpino: un'utopia vitalistica, mistica e anarchica

Creato il 28 dicembre 2013 da Michelam
Appena ho intravisto Randagio è l’eroe (Lindau, 2013)  sugli scaffali di una libreria, ho afferrato il volume e risentito intero il carisma di Giovanni Arpino e il fascino del viaggio in un percorso letterario raffinato e originale, mai uguale a sé stesso, dalle infinite svolte, poliedrico e cangiante, ancorato alla realtà ma pronto a balzi verso l’alto del fantastico e del mistico. Non so quanti si ricordino dello scrittore piemontese. Di cui sento, proprio mentre ne scrivo, la potente attualità.  Alcune brevi coordinate su di lui. Nacque a Pola nel 1927 e morì a Torino nel 1987. Fu scrittore di romanzi, racconti, poesie, opere teatrali, libri per ragazzi, epigrammi. Importante anche il suo contributo al cinema: Divorzio all’italiana di Pietro Germi è tratto liberamente dal suo Delitto d’onore; per Renzo e Luciana, l’episodio di Boccaccio ’70 diretto da Mario Monicelli e tratto da L’avventura di due sposi, Arpino collabora direttamente alla sceneggiatura; poi il successo come “ispiratore di storie per il cinema” con Il buio e il miele, dal quale Dino Risi prende spunto per Profumo di donna
Arpino è stato anche giornalista. Non di quelli che inseguono la notizia e una volta raggiunta non la mollano. Era piuttosto un commentatore di fatti a 360 gradi. Uno scrittore prestato alla carta stampata quotidiana che, passando dalla «Stampa» di Torino al «Giornale» di Indro Montanelli, si è occupato di cronaca, sport e cultura. Il calcio in particolare era la sua passione e dal calcio partiva per affrontare temi sociali, politici, economici, di costume. Tifoso juventino, si trovò a “guerreggiare” a suon di editoriali con Gianni Brera e Beppe Viola; duelli verbali sui giornali che trasformavano il mondo del calcio in quello che non era mai stato: un indice indiscutibile di cultura e di disquisizioni filosofico-esistenziali. Da letterato, appunto. Il suo sguardo sorridente, sornione e disincantato è ancora in me. Quello sguardo che riflette lo spirito dissacratorio, avventuroso, eclettico, esuberante e malinconico di uno scrittore dalla carriera letteraria accidentata, piena di apprezzamenti e prese di distanza diffidenti o ostili da parte delle élites culturali e politiche di sinistra, di premi e incomprensioni. Uno scrittore impossibile da incasellare, fuori da ogni corrente scuola o chiesa, e dunque difficilmente “giudicabile”. Vittorini ritenne il suo primo romanzo, Sei stato felice, Giovanni (1952), superiore a I ventitré giorni della città di Alba di Fenoglio; l’a volte “imperscrutabile” Calvino aveva dubbi sul valore dell’opera (ma stroncò anche Il partigiano Johnny...). Montale aveva capito invece che la posizione “eccentrica” del nostro lo rendeva inviso alla cultura dominante (pressoché dittatoriale, in effetti, ai tempi in cui Arpino scriveva). Rimane, per me e non solo, l’ammirazione per un letterato originale, che in una poesia giovanile del 1946 (raccolta in Dov’è la luce) scriveva: «Io vivo in un deserto. / Talvolta solo la mia ombra / è accanto a me, distesa. / [...] Poi il deserto si popola / diventa moltitudine: / tutti gli uomini entrano in me. / E su di essi scorre il mio sguardo / e in ogni sguardo si ritrova. / Solitudine e folla: / eco cos’è / la mia vita». Qui è l’origine della predisposizione all’apertura verso il mondo, alla curiosità per l’umano, all’osservazione nomade e varia, all’investigazione e comprensione attente. E anche alla scrittura, lavoro serio, serissimo, per Arpino, che si sfianca di labor limae (formato alla lezione di Flaubert, con cui condivide anche lo sguardo lucido e spietato su un’umanità di Bouvard e Pécuchet) e sprofonda in anime inquiete (affascinato dagli universi di Dostoevskij). Non sorprende che «scrivere è più difficile di qualsiasi vivere», per lo scrittore piemontese. «Voglio correre finché avrò fiato», disse di sé il nostro scrittore. Ed è una frase che, per chi scrive, sintetizza l’esperienza multiforme e in perenne evoluzione di Giuseppe Arpino, che in Randagio è l’eroe (opera non inclusa dal curatore Rolando Damiani nelle Opere scelte dei Meridiani Mondadori del 2005) crea un ennesimo viaggio originale nella convinzione che «bisogna nutrire pensieri ampi, assoluti, superbamente inutili rispetto alla nostra realtà così putrida». Randagio è l’eroe (inversione poetica o del parlato o entrambe?) è un romanzo breve. Due i protagonisti, più una “spalla”: Giuan, sua moglie Olona e il loro amico Frank. Tutti e tre appartengono alla schiera di coloro che si sono emarginati sentendosi diversi, portatori di messaggi differenti rispetto a quelli dipinti o incisi sui muri da apparenti contestatori dell’ordine, nient’altro che incitatori di caos e dicitori del nulla. In una città nuda, dai riflessi metallici, dagli altissimi edifici vertiginosamente lontani dagli angoli deserti e assolati di quartieri privi di vita, Giuan si muove di notte in bicicletta per trasformare in messaggi d’amore le scritte lasciate dai sedicenti ribelli all’ordine costituito. In nome di una sorta di anarchia dell’amore, non della violenza. Di una particolare specie di fede nell’uomo (di «misticismo di tendenza randagia, fuori da qualsiasi chiesa» parlava Piovene nella sua presentazione al romanzo sulla « Stampa», un cui estratto compare nel risvolto di copertina). Giuan sbarca il lunario dipingendo cenacoli come quello di Leonardo, convinto che «proprio Filippo, con quell’aria d’agnello innocente, avrebbe dovuto essere Giuda, e questi, benché nero e storto, senza vera colpa», perché Giuda, semplicemente, «torce il gomito e il collo sentendo la tempesta». Gli accidiosi odia Giuan, che conosce a memoria la Bibbia ma anche la Divina Commedia. È da coloro che si confondono che è necessario difendersi. Commovente storia d’amore e d’amicizia anche, Randagio è l’eroe parla di un vecchio che sceglie l’isolamento e il vagabondaggio per diffondere l’amore che vede scomparso. «Va’ dove va il tuo cuore» è il suo messaggio definitivo. E non si tratta di sentimentalismo. Giuan parla agli «uomini affamati perduti e vinti e però invincibili, se avessero capito» che «il tempo del tacere non è mai nato» e quello «della prudenza è già finito». Giuan vuole che questo mondo che «ha paura di essere eroico», sappia.  Solo un cenno alla prosa elegante e essenziale di Randagio è l’eroe, che si muove tra lirismo e parlato vivido, fresco serbatoio di battute intelligenti, veri guizzi di ingegno da portare con sé. Una prosa che, più sfiora il mistero, più si fa ellittica, evocativa, elusiva, perché il mistero non si racconta; si raccontano certi attimi splendenti, gli unici che contino o siano raccontabili. Una prosa in cui ogni parola è leggera e profonda, e lancia echi che si espandono in chi ascolta. Una parola limpida, lapidaria, scintillante e insieme opaca, carica del silenzio di un non detto. Come la trama che sembra sfaldarsi procedendo verso il finale, mentre è solo un frantumarsi del continuum temporale inevitabile di fronte all’inspiegabile dell’esistenza, quello scelto e vissuto dall’eroe randagio Giuan. «La vita o è stile o è errore», diceva Arpino. Sì, Giuan. Anzi, sì, Giovanni. Stile. (pubblicato, con varianti, qui: http://www.sulromanzo.it/blog/randagio-e-l-eroe-di-giovanni-arpino)

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