Rapina a mano armata
di Stanley Kubrick
con Sterling Hayden, Coleen Gray, Elisha Cook, Marie Windsor
Usa, 1956
genere, poliziesco
durata, 83'
Se tutto ciò
che può andare male, andrà male, e' persino ovvio che la rovina sia il
solo compendio dell'agire umano, quando questo perlopiu' si lascia
guidare dall'avidità, dalla menzogna, dalla presunzione idiota.
In apparenza costruito su
coordinate etico-psicologiche simili, "Rapina a mano armata"/"The
killing", datato 1956, terza opera kubrickiana e sua seconda incursione
nel genere nero (dopo "Il bacio dell'assassino" dell'anno
precedente, al genere ascrivibile con un certo numero di precauzioni),
e' per la gran parte l'epifania di una messa a punto: da un lato, quella
dell'oggetto/film come meccanismo da plasmare e far funzionare, calibrato e perfezionato via via in un compenetrarsi di parti/altri
film e ad edificazione di un sovra-meccanismo/Cinema al proprio
interno, infine, consequenziale e coerente; dall'altro, di una
riflessione con intenti manipolatori, scrupolosa e dagli esiti originali, circa il tempo (la scansione narrativa) e lo spazio (in relazione all'uso delle luci, ad esempio: qui, a ripartizione degl'interni, con occasionali e quasi ironici tocchi espressionistici).
All'interno di soluzioni assai tipizzate ma, nel caso del noir,
a maggior ragione imprescindibili - "il colpo della vita"; un piano
sulla carta perfetto; una banda assortita in cui ognuno dei componenti
(pur se in fondo delle mezze tacche) ha la responsabilità di un ruolo
preciso; una femmina subdola e doppiogiochista; il concorso
potenzialmente esiziale d'interessi e pulsioni contraddittorie - Kubrick
opera lo scarto fondamentale di congegnare la vicenda come una partita a
freddo tra pedine (non a caso uno degli elementi aggiunti allo schema
viene cooptato in un club di scacchi, vecchia passione di Stan) che
quanto più si muovono nel rispetto di una logica finalizzata al successo
(la rapina da mettere a segno e' quella ai danni dell'incasso
complessivo di un ippodromo), tanto più, mano mano che gli eventi
prendono corpo, montandosi e smontandosi di continuo in
serratissime sequenze ("The killing" dura ottantatré minuti)
caratterizzate da flashback, ritorni, circolarità, dettagli colti da
diversi punti di vista, secondo un passo diacro-sincronico - i fatti
vengono riassunti/esplicitati da una voce narrante, come mostrati mentre
si svolgono - finiscono per disporsi in modo da creare le premesse,
anche in virtù di un imponderabile che sempre attorno a loro aleggia,
scolo di necessita' al tempo oscuro e inderogabile, del proprio annientamento.
Impreziosito e ritmato dai dialoghi sarcastici e disperati di Jim uomo-da-niente Thompson
(Sherry/Windsor: "Eppure non avevo che te. Non eri neanche un marito.
Non eri niente"), nonché dai bagliori grigio-metallici come dai bui pieni
di Lucien Ballard (con cui Kubrick ebbe più d'un attrito), "Rapina a
mano armata", riprende e radicalizza il fatalismo beffardo già al lavoro
in "Giungla d'asfalto" di Huston, antecedente di poco più di un lustro,
spogliandolo dagli ultimi scampoli epici e romantici. Ne resuscita il
protagonista - Sterling Hayden - modellandone la già controllata mimica
in una specie di smorfia d'impassibile disillusione: scandisce, senza
omissioni e, soprattutto, senza sottolineature sentenziose o
moraleggianti, il gioco (a perdere) della vita, come enigma minato
all'origine da una tabe irriducibile a base di spregiudicatezza e
vigliaccheria; arguzia, destrezza e inettitudine. Ogni cosa in mano ad
un fato inesorabile e muto, tanto che, forse, risulta sensato,
paradossalmente, arrendervisi, come fa Johnny Clay/Hayden, ignorando
l'ultimo anelito di fuga: "No. A che vale, ormai".
TFK