Da quanto Rai2 si è lasciata sfuggire X Factor, il format musicale più bello degli ultimi anni, ha provato a rimpiazzarlo con altri esperimenti, finora poco convincenti. Adesso arriva The Voice. L’idea del programma è simile a quella di altri talent: ci sono quattro giudici incaricati di selezionare tra i concorrenti che si presentano ai casting i migliori cantanti, formare delle squadre e supervisionarle finché, attraverso una serie di sfide incrociate ed eliminazioni, si eleggerà il vincitore. La particolarità di The Voice of Italy è che le selezioni dei talent in gara si svolgono in modalità blind, cioè alla cieca: in polemica con la società dell’immagine, con l’eccessivo peso dato all’estetica nell’industria musicale, i giudici valutano i concorrenti dando loro le spalle, quindi senza farsi condizionare dall’apparenza! Curioso il fatto che, in realtà, una delle più celebri vincitrici uscite dai vituperati talent basati sull’immagine sia state Susan Boyle (non certo una top model). Nei talent la giuria è tutto, ma per ora la squadra dei giudici italiani, tutti cantanti a loro volta, sembra uno strano mix di nazional pop e “vecchie glorie”. C’è la creatura di X Factor Noemi, Raffaella Carrà (senza immagine non esisterebbe), Riccardo Cocciante (dopo Fiorello non si riesce più a vedere) e Piero Pelù, che dell’importanza dell’immagine nella carriera musicale dovrebbe saperne qualcosa: nato incendiario è il re dei pompieri. L’effetto generale è un po’ museo delle cere. Vero che il programma deve ancora rodarsi, ma tra ritmi lentissimi, concorrenti così così, ostentazione continua dei parenti in lacrime, The Voice sembra stonare. Perché poi il partner radiofonico è RTL e non RadioRai?
Per Stefania Carini di Europa Quotidiano si tratta di un talent “dimesso” che perde il confronto con il pop di Amici e con il glamour di X Factor:
Come definire The Voice? Il fattaccio è questo: il talent è piuttosto brutto come confezione ma regge come format. Così bislacco pare categoria estetica appropriata. Format americano, adattato per la Rai in maniera nazionalpopolare e trasversale. Basta vedere i giudici: dalla mamma della tv Raffa alla neovoce italiana Noemi, passando per un malinconico Cocciante e un falso giovane Pelù. La novità? Si parte con le audizioni al buio: i giudici sentono solo la voce del concorrente, sono seduti in poltrona e gli danno le spalle. Se decidono di fidarsi del loro orecchio, possono girare la loro poltrona e contendersi il prescelto, cui tocca poi decidere in che squadra stare. Si dà spazio solo alla voce, si ripete, lasciando fuori l’immagine. Bislacco, appunto, nell’era dei talent, a più di 30 anni da “Video kills the radio star”. Un espediente che diventa un modo per tirarsela, per dire che The Voice è diverso, puro, giusto. In realtà, l’effetto più divertente di tale meccanismo consisteva nel fatto che nessun concorrente o quasi sceglieva Cocciante, e così via di ironia su di lui. Visti i giudici d’altra parte non aspetti altro che lo svacco trash. A tenere la mano ai famigliari dei concorrenti il conduttore invisibile Troiano, così dimesso nella sua giacca di velluto. Già, dimesso è un altro aggettivo buono per The Voice. Se lo confronti con il pop di Amici e con il glamour di X Factor, The Voice perde: la mano produttiva (Rai con Toro) si vede in negativo a livello di scarsa resa dell’immagine. E poi c’è poco senso della costruzione drammaturgica, tutto scorre lento e piatto. Per creare l’emozione, non bastano concorrenti che parlano di riscatto, famigliari in lacrime, consolazioni post eliminazione (la parte più Carramba). Ci vuole capacità di alternare gli alti e i bassi, le storie vere ai casi ironici, i casi deboli a quelli forti. Ci vuole senso del montaggio, del ritmo, della narrazione. Sembra che tutta l’emozione sia affidata ai giudici che mercanteggiano per ottenere il favore dei cantanti, un momento che spesso pare così artefatto. E un po’ precotto. Il format però pare più forte di tutto questo, in attesa delle scintille dei giudici (qui per ora è #teamRaffa). Certo bisognerà vedere cosa accadrà durante la diretta, vero banco di prova per lo show. The Voice ha fatto un buono ascolto. Al di là del prodotto in sé, è segno che la Rai era più che pronta per prodotti simili. Così ancora una volta ci si chiede il perché della chiusura di X Factor. I costi? Più che ammortizzati, se si aveva la pazienza di far crescere l’apripista che già aveva dimostrato molte delle sue potenzialità.
Anche Maurizio Caverzan su Il Giornale insiste sul confronto tra The Voice e X Factor:
Impossibile non fare confronti. Anche perché i coach e il conduttore li fanno di continuo. Non dev’essere facile andare in onda con la necessità di distinguersi da un format già affermato. La differenza principale tra The Voice of Italy e X Factor sta nel fatto che i giudici promuovono o respingono i concorrenti ascoltandoli su poltrone girate di spalle. Si chiamano blind audition – gli anglismi servono a calcare l’internazionalità dello show – questo è il primo talent dove si giudica solo la voce e il look non c’entra, ripetono. Ma non pare che l’ultima vincitrice di X Factor sia una miss. Comunque, intonazione, senso del ritmo e estensione vocale sono i criteri esclusivi della scelta dei giudici. Pigiando un bottone durante l’esibizione la poltrona ruota di 180 gradi e il coach dichiara “I want you”. Se sono più d’uno, tocca al cantante scegliere con chi schierarsi. The Voice è un format inventato e prodotto nel 2010 da John De Mol, già ideatore del Grande Fratello. Approdato l’anno successivo negli Stati Uniti, ora è trasmesso con successo in 35 Paesi. I giudici italiani sono Raffaella Carrà, Piero Pelù, Riccardo Cocciante e Noemi, un quartetto che ricalca quello del talent di Sky: la donna di televisione, il rocker maudit, il musicista colto, la giovane emergente. Per quello che si è visto nella prima serata la Carrà, in completo sadomaso di pelle nera, è la presenza più carismatica; Pelù si è preso i concorrenti migliori e più aggressivi; Noemi, che la Carrà chiama “giovanotta”, raccoglie appunto i più giovani; mentre Cocciante deve trovare il modo per far passare la sua erudizione musicale. Molti dei concorrenti sono già cantanti a vario titolo, si esibiscono, hanno partecipato a show importanti come Denise Faro, protagonista del Giulietta e Romeo di Cocciante (che, di spalle, non l’ha riconosciuta). Rispetto a X Factor il target di riferimento è più vecchio. Lo si vede dall’uso più moderato della tecnologia. Ma il meccanismo del talent – trepidazione del concorrente, prova d’esame, giudizio – funziona sempre.
Invece Alessandra Comazzi su La Stampa sogna un talent corto, della durata massima di un’ora:
Ancora un talent. Ancora una prima serata lunghissima. Ancora canzoni, canta che ti passa. Però è stato divertente e dirompente il debutto di «The Voice of Italy» su Raidue, 3 milioni 376 mila spettatori. Format mondiale, 14 milioni di amici su Facebook, il programma prevede la presenza di quattro coah, gli allenatori: Raffaella Carrà, Riccardo Cocciante, Noemi e Piero Pelù, tutti signori che sanno fare quello che allenano gli altri a fare, tanto che cominciano cantando. La prima selezione avviene «al buio», cioè con i quattro seduti di spalle al gareggiante. Perché lo spirito del talent, dicono, è valorizzare la voce. Cocciante propugna la difesa delle origini. «Torniamo al succo: voce, testo, melodia e un piccolo accompagnamento». E Noemi aggiunge che «l’immagine mangia troppo la particolarità della voce». Vero è pure che, in tutte le arti di scena, non conta soltanto lo specifico, ma la correlazione con il resto. E’ comunque significativo il richiamo alla purezza musicale. Anche qui i docenti devono formare una squadra: se scelgono un cantante, pigiano un pulsantone e si voltano. Se non si volta nessuno, il concorrente se ne va subito; se si voltano in più d’uno, sarà il concorrente a scegliersi il suo coach. Fabio Troiano è il conduttore d’uso ai talent, non tanto conduce quanto introduce. Ah, se lo show durasse un’ora!