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RATCATCHER (1999)
Regista: Lynne Ramsay
Attori: Tommy Flanagan, Mandy Matthews, William Eadie
Paese: UK
Si torna a parlare di cinema britannico e più precisamente della Glasgow anni '70, raccontata più tardi anche da Peter Mullan in “Neds”. Di quanto la città fosse difficile si era già scritto, tuttavia laddove Mullan alza il tiro inquadrando più fattori e ampliando lo sguardo, la Ramsay non distoglie l'occhio della telecamera dal suo giovane protagonista e dallo slum in cui vive.
La depressione economica e sociale della capitale scozzese si riversava in ogni famiglia come in ogni quartiere, ed anche quindi su quello già degradato e povero inquadrato dalla pellicola. Un quartiere sporcato ulteriormente dai sacchi di spazzatura accumulatisi sotto le abitazioni in seguito allo sciopero dei netturbini e dai bambini che su quei sacchi ci giocano, scovando e ammazzando topi presenti ormai ovunque. Non è nuova l'attenzione del cinema britannico verso quadri simili e non è un caso che anche questo “Ratcactcher” riesca a far arrivare in maniera forte lo stato socio-emotivo raccontato.
La pellicola è di genere solo in apparenza. La storia di James (William Eadie), del senso di colpa per aver accidentalmente ucciso un suo compagno, delle sue giornate e delle sue speranze è solo la maschera di una descrizione umana ancor più che estetica del peso del degrado sulla percezione della vita. Non è infatti neanche una pellicola di (de)formazione perché manca di fatto una diegesi filmica lineare capace di tracciare una storia individuabile. Una storia, oltretutto, che giustifichi emotivamente un scelta finale così forte, che è sì in linea con la denuncia ma che non appare come una tappa credibile di un percorso appena scalfito.
Risiedono qui sia l'aspetto più riuscito sia quello più debole della pellicola. Ogni qualvolta Ramsay inquadra la famiglia, una parentesi che vede protagonista James, il suo giocare tra i sacchi d'immondizia, in realtà inquadra la situazione generale in cui vivono tutte le famiglie all'interno dello slum. Si ha l'impressione che James sia una sineddoche attraverso cui raccontare il tutto, e in questo senso “Ratcatcher” riesce pienamente nel suo intento.
Si respira lo stesso fetore, ci si gratta la testa quando i protagonisti lo fanno per liberarsi dei pidocchi, si avverte la malinconia di uno dei cieli più plumbei e ci si sente costretti in una prigione da cui il protagonista si allontana qualche ora solo con la consapevolezza di ritornarci. Una costrizione che La Ramsay tiene particolarmente a sottolineare e a trasmettere. I primi e primissimi piani sul protagonista non si contano e le inquadrature più larghe non propongono mai uno spazio visivo troppo vasto – eccezion fatta per “l'ora d'aria” che James si concede quando si dirige verso le nuove case in costruzione. Nelle inquadrature all'interno dell'appartamento quest'aspetto raggiunge poi il suo apice, insieme all'asfissiante presenza di un padre (Tommy Flanagan) non in grado di non maltrattare suo figlio.
Riflessioni del tutto simili possono farsi nell'analisi della fotografia, che segue a ruota il cielo grigio di Glasgow e assume tonalità assolutamente spente. Tonalità che vestono una regia con la quale condividono gli intenti, restituendo un quadro freddo, rassegnato e privo di speranze.
A non funzionare, per contro, è invece il racconto in sé, quello propriamente inteso. La struttura narrativa, si scriveva, è appena percettibile. Si limita a raccontare una giornata tipo di un bambino alle prese con una simile realtà, non andando a fondo. Il limite non sta tanto nel cosa quanto nel come viene raccontato; molte pellicole dicono tanto senza dire nulla, ma purtroppo non è questo il caso. La struttura emozionale del giovane protagonista è quasi inesistente, il senso di colpa non viene elaborato come si sarebbe dovuto, il peso del quartiere lo si avverte sulla gente che lo abita ma della personale percezione dello stesso da parte di James nessuna traccia. Come del resto l'intera parentesi in cui si avvicina alla ragazza. Quest'ultima allo stesso modo comunica una delle sfaccettature di uno stato d'animo comunque generale, tanto che l'interazione tra lei e James è assolutamente priva di peso all'interno della sceneggiatura. Ogni sequenza che appare sullo schermo non riesce ad incastrarsi in una struttura riconoscibile che non sia appunto quella descritta in precedenza e relativa al generale e non al particolare.
Si resta indifferenti, quindi, verso un protagonista, e verso una storia, che non permette di creare empatia alcuna, che è poi anche una delle debolezze peggiori che un film possa mostrare. E a sottolineare ulteriormente quanto poco la regista scozzese si sia concentrata sul soggetto per rendere al meglio lo sfondo, la scelta di optare per attori non professionisti. Rendono infatti la naturalezza ricercata dalla Ramsay nel comunicare una spensieratezza svanita in un'aria maleodorante e velenosa, ma non vengono al tempo stesso diretti in maniera tale da umanizzare il personaggio da loro interpretato.