Tra i film più attesi di questo 13° Ravenna Nightmare vi era senz’altro Francesca di Luciano Onetti. E anche la giuria composta dal giornalista e scrittore ravennate Nevio Galeati, dall’illustratore, saggista e docente Massimo Perissinotto e dal fumettista underground e regista indipendente SS-Sunda sembra aver molto apprezzato, al pari di chi ne sta ora scrivendo, la spudorata effervescenza stilistica del cineasta argentino. Al momento opportuno è difatti arrivato un significativo riconoscimento, il Premio Weird Vision così motivato: “Per aver omaggiato con un atto d’amore, stravagante e visionario, il nostro cinema di genere degli anni ‘70.”
Condividiamo tali parole e le rapportiamo anche a quel senso di scoperta, di morbosa meraviglia, da cui eravamo stati investiti un anno fa scoprendo, in altro loco, l’opera prima dello stesso Onetti: il ben più frammentario ed epilettico Sonno profondo.
Torniamo comunque al nuovo lungometraggio. Sostenuto anche qui in produzione dal fratello Nicolás (e questo potrebbe persino propiziare un divertente parallelo coi fratelli Avati), Luciano Onetti è riuscito nell’ardua impresa di amplificare ulteriormente le suggestioni estetiche mutuate dal cinema di Dario Argento, continuando caparbiamente e sfacciatamente a parafrasare gli stilemi di riferimento, ma con un occhio finalmente più attento alla complessità del racconto.
Il prologo è un concentrato raccapricciante di perversioni famigliari e di orrore legato al gesto sadico, apparentemente folle, compiuto da una bambina. Francesca. Tutto raccolto in poche, ipnotiche inquadrature. S’intuisce sin dall’inizio che a questa sua antica “colpa” fa riferimento la catena di efferati omicidi, che anni dopo semina il panico nella società Italia, gettando discredito sull’operato di una polizia sempre molto lontana dalla verità. Quale potrà mai essere, però, la connessione reale tra passato e presente? Seguendo le rischiose indagini dei due ispettori incaricati del caso, lo spettatore verrà a conoscenza di segreti ancora più terribili di quelli già ipotizzati, a margine della sequenza iniziale…
Cromatismi esasperati. Location dalle architetture conturbanti nel loro freddo razionalismo o per qualche slancio barocco. Scenografie al limite del delirio. La cornice inequivocabile entro la quale Onetti costruisce il suo morboso teorema riporta a un immaginario rivisitato con maniacale scrupolo filologico, dove anche le musiche oscillanti tra prog e free jazz (opera dello stesso autore) clonano ossessivamente i modelli degli anni ’70, Goblin in testa. Le vertiginose soggettive e i dettagli, in cui possono comparire tanto monete italiane dell’epoca che altri elementi della nostra cultura, immediatamente riconoscibili, rappresentano poi il sigillo infuocato di un’operazione compiuta indubbiamente con stile, fregandosene delle possibili accuse di manierismo, ma con l’intenzione di turbare il pubblico in ogni caso.