Forte di un incipit dall’impatto notevolissimo, Julia di Matthew A. Brown ci aveva fatto sperare che anche il prosieguo del racconto si rivelasse all’altezza, generando così un film di grande spessore. E invece buio pesto, principalmente a causa di una logica da “revenge movie” affrontata qui in maniera quantomeno bizzarra. Si accennava intanto all’impronta scioccante delle sequenze iniziali: vi compare la protagonista, un’infermiera dall’aria timida di nome Julia Shames (a interpretarla una Ashley C. Williams comunque attraente ed energica), che si presenta nella casa di un giovane conosciuto da poco, per quell’incontro che sembrerebbe profilarsi come un classico e tenero appuntamento romantico. Ma l’altro ragazzo ha idee molto diverse per la testa. La imbottisce di droga e la sottopone a un feroce stupro di gruppo, che, se non fosse per il piccolo e in ogni caso tardivo aiuto di un “pentito” della stessa gang, rischierebbe persino di esserle fatale. Julia a quel punto è disorientata, non sa nemmeno se rivolgersi a una polizia troppo spesso svogliata e inconcludente, in casi del genere. Ma di lì a poco incontrerà alcune giovani e affascinanti vendicatrici, solite riunirsi in un pub, che le proporranno di unirsi alla banda per ricevere un analogo appagamento, da quella cruenta terapia in cui sono “maschi alfa” selezionati di volta in volta a pagare un copioso tributo di sangue.
Ecco, è nella particolare e distorta applicazione delle dinamiche del “revenge movie”, che il film di Matthew A. Brown comincia a prendere una piega alquanto delirante, scombinata, assurda. La strana congrega femminile ha infatti come guida (e terapeuta) un individuo ambiguo, sadico e perverso, che obbliga le sue discepole a non occuparsi delle persone che le avevano violentate e umiliate, dirigendo invece la loro collera verso altri soggetti maschili a loro estranei. Un ragionamento tipo: curare il male alla radice. E magari alla radice stessa del membro virile… Imbevuto di un credo femminista radicale e oltranzista, lo script di Julia deraglia quindi verso una mutazione furente del filone “rape and revenge”, in cui la selezione degli obbiettivi da castigare rasenta il ridicolo, le psicologie vanno a scatafascio e si gioca in maniera un po’ facilona su improvvise derive lesbo. Se a ciò si aggiungono quelle note un po’ kitsch, date dal brusco innesto di canzoncine pop giapponesi nella colonna sonora o dall’approccio registico un po’ casinista e balordo, soprattutto nei flashback, ai comportamenti deviati del capobanda, allora la frittata è fatta. Di questo racconto cinematografico la cui credibilità si smonta poco alla volta, resta la curiosità di aver visto all’opera un regista sudafricano ritenuto assai promettente, nel panorama “indie” statunitense presso il quale opera, coadiuvato peraltro nei ruoli tecnici da qualche qualificato elemento (tra cui il montatore, ma soprattutto un direttore della fotografia veramente bravo), di provenienza addirittura islandese.
Stefano Coccia