Dal classico “bobby” londinese in versione ciclista è lecito aspettarsi un certo rispetto dell’etichetta. Persino quando, già provato dalla crescita esponenziale della microcriminalità nei quartieri periferici, minato nell’equilibrio psichico da una botta in testa presa (non troppo) accidentalmente, si decide a cambiare radicalmente rotta con coloro che considera delinquenti incalliti. Non più interventi di polizia nel pieno rispetto del protocollo, quindi, ma giustizia sommaria con un corollario ancor più insolito alla spietata eliminazione dei recidivi: ogni esecuzione viene infatti filmata e messa on line in tempo reale, affinché il pubblico della rete possa condividere e commentare tutte le azioni del fantomatico, strampalato giustiziere! Il quale, però, nonostante la brutalità degli interventi conserva il tipico atteggiamento del funzionario anglosassone, che anche in situazioni così estreme non perde del tutto il rispetto della forma. Prima di procedere, l’intrepido Baz (interpretato in modo assai convincente da Kevin Bishop) si ritrova pertanto a svolgere rapidi interrogatori; fino a porre, non senza una qualche cerimoniosità, la fatidica domanda: May I Kill U? Domanda, che è anche il titolo dell’irriverente lungometraggio di Stuart Urban.
Non è stata affatto una sorpresa, per chi scrive, che al Ravenna Nightmare questo scoppiettante racconto cinematografico si sia accaparrato ben due premi, quello del pubblico e quello al già citato Kevin Bishop come miglior attore. Ci ha invece sorpreso, dialogando dopo la proiezione col simpatico ed esperto cineasta inglese (che ci risulta nativo dell’Isola di Wight, per la gioia nostra e dei Dik Dik) apprendere quanto segue: una parte della critica britannica avrebbe accusato il film di essere giustizialista e di guardare al protagonista con eccessiva simpatia. Niente di più sbagliato. Oltre ad essere una imperdibile lezione di “black humour”, come ogni tanto ne arrivano dal Regno Unito, May I Kill U? ci è sembrato al contrario assai caustico verso le istituzioni inglesi e i suoi rappresentanti in divisa. In fondo, per quanto possa suscitare a tratti un po’ di tenerezza (e qui l’umanizzazione ci può anche stare, rispetto agli stereotipi offerti a palate da certi thriller americani), il protagonista resta pur sempre un improvvisato serial killer alla ricerca di ridicole giustificazioni per i propri omicidi, dettati molto spesso da semplice frustrazione. E qui il rapporto psicotico di Baz, poliziotto “mammone”, con la madre megera, castrante e ossessiva, assume un ruolo importante e allo stesso tempo tragicomico: non stupisce che Stuart Urban si sia in parte ispirato, per sua stessa ammissione, alle biografie di noti serial killer come il famigerato Edmund Kemper III detto anche “Big Ed”.
Un altro aspetto parimenti esilarante e feroce di May I Kill U?, da inserire senz’altro tra i film rivelazione del festival ravennate, è la rappresentazione caricaturale (ma neanche troppo) del taglio cinico, violento e morboso che le comunicazioni via internet vanno assumendo. I video delle uccisioni che Baz, per pubblicizzare le sue truculente e poco ordinarie operazioni di polizia, è solito postare in incognito, gli hanno infatti procurato un codazzo di “followers” che non perdono occasione di commentarne e talvolta incoraggiarne le fosche imprese. Al primo di tali video viene attribuita una coincidenza temporale, tutt’altro che irrilevante, con la repressione dei “riots” londinesi di due estati fa. E’ poi alquanto genialoide, a livello registico, la trovata di Stuart Urban per cui i messaggi dei fan accompagnano l’assassino nelle ronde, materializzandosi sullo schermo in forma di chat: risulta qui paradossale, divertente e al contempo tremendamente attuale, vedere utenti che dispensano i consigli più efferati, nascondendosi magari dietro l’avatar di un tenero, innocuo gattino!
Stefano Coccia