La britannica Kate Shenton ha girato un documentario “tra color che son sospesi”. Ma ciò che intendeva Dante, lo si può facilmente intuire, è alquanto differente dal fenomeno rappresentato in queste immagini. On Tender Hooks, per “riagganciarci” subito al reale nocciolo del discorso, è un’audace ricognizione di quella sorprendente arte nota nel mondo anglosassone come “human suspensions”, un’arte di sicuro estrema che si sta ora diffondendo in svariati paesi. Ganci che traforano la pelle in punti strategici. Corde legate ai suddetti ganci, per sollevare e far volteggiare chi accetta di sottoporsi a questa prova. Persone esperte e a loro volta appassionate di tali esperienze che preparano i volontari, li assistono e sorvegliano, affinché tutto ciò avvenga in un regime di sicurezza e di assoluto controllo. Altri soggetti che guardano i “sospesi” con crescente curiosità, arrivando spesso a voler emulare la loro esperienza, dopo aver superato la diffidenza iniziale. In linea di massima questo è il quadro, entro il quale tende a svolgersi la performance di base; una delle tante che la peraltro giovanissima cineasta ha voluto, con una certa perizia, e sottolineando le differenze di approccio individuale, filmare. Queste “sospensioni” possono poi dare vita ad eventi maggiormente articolati, in cui si è soliti cercare qualcosa di nuovo, di più sbalorditivo, sotto l’aspetto coreografico e della prestazione fisica.
Tra i motivi che ci hanno fatto apprezzare il documentario vi è anche quello spazio, fondamentale, lasciato alla libertà di giudizio dello spettatore, nonché l’abilità della regista nell’indagare, senza risultare oppressiva e invadente, sulle motivazioni che spingono soggetti di varia estrazione sociale verso una pratica così impressionante, e dolorosa. Siamo per davvero in un territorio di frontiera, quello della cosiddetta “body modification”. Ne esce fuori che tra le persone riprese e intervistate quasi nessuno afferma di essersi fatto suggestionare dagli aspetti culturali, o spirituali, cui una simile esperienza può rimandare: da registrare solo una voce fuori dal coro, quella di chi ha almeno citato i riti di passaggio dei nativi americani (il che, alla nostra memoria cinefila, ha prontamente rievocato le famose scene del western con Richard Harris protagonista, Un uomo chiamato cavallo). Per il resto, quasi tutti hanno orientato le proprie considerazioni verso la propria sfera emotiva, sollecitata, attraverso il dolore iniziale e la successiva scarica di adrenalina, a raggiungere uno stato di armonia corporea per certi versi liberatorio.
Senza addentraci oltre in punti di vista così personali, soggettivi, di On Tender Hooks è piaciuto anche l’estendersi della ricerca, che da un nucleo iniziale (la prima esperienza di “sospensione” del veterano Damien Lloyd Davies, già oggetto di un precedente cortometraggio) ha spinto la regista a documentare altri casi: particolarmente interessanti quelli della giovane donna croata, che in patria è stata sottoposta per questa sua passione a un’assurda persecuzione legale, e i voli di gran lunga più impressionanti di chi in Russia ha pensato addirittura di fondere l’uso dei ganci sulla pelle con una specie di “bungee jumping”. Questa forse è sconsideratezza. Il vero coraggio, per noi, è quello della stessa Kate Shenton, che invece del classico “armiamoci e partite” ha voluto sperimentare sulla sua pelle (letteralmente) quella pratica, così amata dalle persone che da lei si sono fatte filmare; un coraggio (che sottintende una estrema, ammirevole coerenza) pari a quello del Ravenna Nightmare, festival che con ogni evidenza non vuole circoscrivere l’horror al solito “splatter”, o comunque al cinema di finzione, ma che invece ama declinare il genere (e le sue possibili ramificazioni) in mille altri modi.
Stefano Coccia