Raviolo aperto allo zafferano con castradina s’ciavona al cardamomo (Castrato di Dalmazia) per la sfida #52 dell'Mtchallenge

Da Lacucinadiqb

Vi capita mai di essere concentratissimi mentre state cucinando, tanto da non accorgervi se una gallina dovesse entrare in cucina ed armeggiare con il forno a microonde? “Pop-corn perfetti e quasi quasi ci abbino anche una bella birretta.” mi comunica Pina, distogliendomi dalla preparazione del piatto della sfida #52 dell’Mtchallenge. “Ti prepari per un film?” le domando senza guardarla mentre armeggio un pentolone pieno di brodo profumato. “No, mi preparo per te. Sei alle prese con la ricetta del mese, vero? E quindi avrai sicuramente una storia da raccontare. Come se non bastasse sei in cucina da due giorni e sono davvero più curiosa del solito. Che prepari di buono?” risponde Pina con un’espressione tra il sarcastico e il sarcastico di Pina la Gallina. “Ehm, un raviolo.” “Seeeee, e io sono la Madonna del Rosario! Dai, fai la seria che mi sono dimenticata di registrare l’ultima puntata di Superquark e mi manca la dose settimanale di contenuti intelligenti. Sai, sono come la settimana enigmistica al mare: in mezzo ci metti Novella 2000, che guardare la cellulite delle plasticate fa bene all’autostima, e tu fai la figura dell’intelligente. O almeno ci provi. E con che cosa, il raviolo?”
“Con una farcia dalla cottura lunga lunga che poi la usi anche per condirlo. La sfida di questo mese verteva sui Raieu co-u-tuccu, di Monica. "Ah si, semplice come i testi di Battiato. E quindi? Dai, che sono curiosa!”. Termina la frase arrampicandosi sulla sedia a capotavola e, mentre si accomoda sul cuscino, inizia a piluccare i pop-corn.
La caratteristica della sfida di questo mese verteva sul raviolo asciutto, sulla farcia ottenuta da lunghe cotture e dalle combinazioni più incredibili di ingredienti, sulla tradizione del piatto della domenica e della festa. Il piatto proposto, i ravioli di Monica, genovesi al 100%, avevano bisogno di un guanto veneto, come i Rufioi o i Casumziei ampezzani, entrambi con una farcia vegetale, come la verza e la barbabietola, oppure con i tortelli di Valeggio sul Mincio, l’ombelico di Venere goloso e carnoso. Ma non mi convincevano. Poi ho recuperato un vecchio testo che parlava di peste. E mi sono decisa a raccogliere il guanto ed accettare la sfida. Devi sapere che Venezia era famosa per le sue carte nautiche, dalla precisione millimetrica ottenuta grazie anche alla forma delle navi, le galere, ed alla tipologia della navigazione, che avveniva spesso vicina alla costa. Ciò consentiva ai mercanti di dedicarsi ai commerci tutto l’anno: le navi partivano in primavera e rientravano in autunno, giusto il tempo di dare dare il cambio a quelle che, partendo in autunno, avrebbero rivisto il bacino di San Marco con la festa del Santo patrono. Si viaggiava in gruppo così da rischiare meno in caso di incontri poco piacevoli e tutte le tratte, che avessero come destinazione il Mar Nero, il Nord Africa o le Fiandre (e magari anche le Lofoten) avevano come porti dove ripararsi e rifornirsi quelli della Dalmazia che le nonne, quelle veneziane doc, hanno sempre chiamato “S’ciavonia”. Immaginati, Pina, le contaminazioni gastronomiche che i lunghi viaggi consentivano! Le galere partivano attrezzate di tutto punto dall’Arsenale, con la cambusa carica di sarde in saor e pan biscotto e prendevano il mare grazie alla forza delle braccia dei rematori, vuoi per scelta (detti “buone voglie”) e vuoi per forza (i famosi “galeotti”). Il  menù dell’addetto al remo comprendeva, alla domenica, oltre alle gallette ed alle fave anche formaggio e carne salata, quella che appunto veniva acquistata nei porti della Dalmazia e che veniva preparata dai pastori locali grazie all’acqua del mare per la salatura e al fuoco per l’affumicatura. Così venivano conservate le cosce di castrato, preziosissime riserve di cibo anche in quei casi in cui burrasche o pirati rendevano difficile l’attracco e il successivo rifornimento. Per coscia di castrato intendi quella cosa puzzolente che è appesa in cucina, immagino.” commenta Pina mentre cerca di aprire la bottiglia di birra con il becco. “Non è puzzolente: è salata, speziata ed affumicata. Senza questa accortezza i marinai avrebbero mangiato pane e vermi!” le rispondo mettendo sul fuoco un altro pentolone di acqua fredda. “Posso continuare?” “Certo, intanto preparo un’altra manciata di mais. Ne vuoi un po’?”
“Dopo, grazie, devo tenermi le papille intonse per assaggiare.”  Ovviamente la carne acquistata non veniva consumata tutta e solitamente il capitano, una volta rientrati a Venezia, la divideva tra il personale di servizio, anche a mo’ di compenso. Veniva così portata in casa, in famiglia, come preziosa riserva di proteine. Ma i legislatori, sempre molto attenti alla pulizia ed all’igiene, visto l’assenza dei frigoriferi, stabilirono che anche le cosce di castrato salmistrate dovevano avere una data di scadenza, che fu fissata appunto nel 21 novembre, festa della Madonna della Salute: entro quella data doveva essere consumata tutta, secondo le ricette che nel corso dei secoli erano state codificate.
“E cosa c’entra la Madonna della Salute?” domanda una Pina sempre più interessata alla storia che al suo aperitivo. Venezia pagò un obolo doloroso alla prolungata peste che nel 1630 si portò via un terzo della popolazione e le pratiche sanitarie a disposizione non erano molte: gattoni soriani, che venivano importati direttamente dalla Siria, e che si sollazzavano con i ratti, portatori della malattia, e la fede. In occasione di un momento così tragico il Senato della Repubblica stabili che vicino alla punta della Dogana, dove si apre la laguna, doveva essere costruita una chiesa davvero magnifica, in onore della Madonna della Salute, così da adempiere al voto fatto durante la peste. L’incarico fu affidato all’archistar Baldassare Longhena: i lavori, iniziati nel 1631, terminarono 56 anni dopo ma i veneziani non persero tempo ed anticiparono i festeggiamenti. Si ha testimonianza, infatti, della solennità della festa della Presentazione di Maria al Tempio, che cade appunto il 21 novembre, durante la quale la processione che partiva dalla Basilica di San Marco, con in testa il Patriarca e il Doge, arrivava alla nuova chiesa attraverso un ponte di barche, ogni anno ricostruito. E visto che il 21 novembre già in città c’era festa grande, e bisognava consumare le scorte di carne che erano arrivate in primavera, quale migliore occasione di associare il piatto della “Castradina” alla festa della Madonna della Salute? Un po’ come si era fatto con i Risi e Bisi, piatto del Doge e di San Marco. Ancor oggi, il 21 novembre, migliaia di persone con in braccio tante sottili candele quante sono le preci alla Madonna, attraversano il ponte di barche, entrano nella sontuosa e bianca basilica e depongono le candele che, nel corso dell’anno, verranno fuse dai frati ed utilizzate per costruire candele e lumini più piccoli: verranno accesi dai fedeli che affidano alla loro calda fiammella il proprio destino e quello dei propri cari. E dopo aver curato l’anima perché non dedicasi anche alla cure del corpo, grazie ad un buon piatto di Castradina, accompagnato da un abbondante bicchiere di vino rosso?”



“Mi pare un’ottima idea. Anzi, la vorrei assaggiare quell’idea che sta sobbollendo nella cocotte. Ma, scusa se ti faccio questa domanda, come lo spieghi il raviolo?!”

Si, hai ragione, non è stato facile, ma volevo sottolineare la bellezza di questo piatto che oramai è sempre più difficile da preparare in casa, un piatto legato non solo alla tradizione religiosa, visto che appunto si consuma esclusivamente a Venezia e solo il 21 novembre, ma soprattutto alla convivialità, alla voglia sempre e comunque di sedersi a tavola, anche dopo una grande disgrazia o un grande lutto. La toccata e fuga a Rialto mi ha fatto ricordare che centinaia d’anni fa, al posto delle caccavelle made in china, c’erano le botteghe degli spezieri, magari vestiti alla turchesca, con grandi turbanti e preziosi cappotti in broccato dorato, dove si poteva trovare ogni profumo ed ogni colore. Ecco allora l’aggiunta dello zafferano alla pasta, per ricordare la preziosità del piatto, anche se preparato con ingredienti poveri, e il cardamomo, che nella cultura medio-orientale viene offerto per aiutare la digestione e purificare l’alito. E naturalmente il raviolo non poteva essere chiuso! Doveva essere aperto anzi, apertissimo, come vorrei che tutti noi fossimo aperti alle contaminazioni culturali, religiose ed alimentari, lontani da quei talebanismi (e non serve andare in Afghanistan per trovarli) che stanno sempre più ammorbando il mondo del food, pardon, del cibo. “Ok, anche oggi hai fatto il tuo pippone. Ma quand’è che si mangia?”
Accomodati, dammi solo il tempo di recuperare i vecchi piatti, i sottili bicchieri e le lucenti tovaglie. E buona sfida a tutti!
Raviolo aperto allo zafferano con castradina s’ciavona al cardamomo (Castrato di Dalmazia) Ingredienti 1 biglietto del treno destinazione Venezia 70 cent (per i foresti il doppio) per prendere la gondola da Santa Chiara a Rialto da Fedalto, premiata macelleria dinnanzi al mercato della frutta, acquistare 1 cosciotto di castrato salmistrato altri 70 centesimi par tornar indrio più do' sardee per distrarre i gatti e le gabbianelle incuriositi dall’odore che emanerà la vostra shopper super cool e lo stesso dicasi per il treno del ritorno 1 carota 1 costa di sedano bianco con tante foglie 2 cipolle bianche, meglio di Chioggia 1 verza grandina (1:1 con la carne cotta) 1 foglia di alloro fresca 3 bacche di ginepro 3 chiodi di garofano 3 semi interi di cardamomo un mazzetto di timo limonato fresco olio evo riviera ligure sale in fiocchi polvere di foglie di pepe cubebe  Per la sfoglia 500 g di farina Gran Sfoglia Molino Quaglia 4 uova bio 1 bustina di zafferano 1 dl di olio di noce un pizzico di polvere di foglia di pepe cubebe Procedimento Dopo essere andati a Rialto, e tornati a casa, prendete il vostro bel cosciotto, lavatelo accuratamente ed eliminate con un panno pulito, ma senza residui di detersivo o ammorbidente, parte della salmistratura  superficiale, trasferitelo in una pentola capiente, copritelo di acqua fredda e portatelo a bollitura, cuocendolo per 5’. Spegnete il fuoco, fate raffreddare nella sua acqua, meglio sarebbe riposare a temperatura ambiente per un’intera giornata. Eliminate l’acqua della prima bollitura, pulite la pentola e ripetete. Ora, dopo aver nuovamente gettato l’acqua di bollitura e pulito la pentola, ripetete l’operazione aggiungendo una cipolla bianca steccata con i chiodi di garofano, sedano e carota puliti ed interi, la foglia di alloro e le bacche di ginepro. Ricoprite con acqua fredda, riportate a bollitura, cuocete per 5’ e lasciar raffreddare nel brodo. Una volta raffreddato disossare il cosciotto, eliminare la pelle ed eventuali tessuti connettivi e tagliare la carne a jiulienne. Sgrassare il brodo e mettere da parte. Mondare e tagliare a julienne la verza, eliminando il torsolo. Mondare e tagliare finemente la cipolla, brasarla con un filo di olio evo ed un po’ di brodo in una casseruola capiente di coccio o di ghisa, unire le foglie di verza, la carne, i semi di cardamomo appena aperti e racchiusi in una garza, il mazzetto di timo limonato, coprire con il brodo e cuocere a fuoco più che dolce per almeno 3 ore, meglio 4. Nel frattempo preparare la pasta setacciando la farina con lo zafferano in polvere un paio di volte ed impastando tutti gli ingredienti fino ad ottenere un impasto liscio, avvolgerlo nella pellicola e farlo riposare almeno un’ora in frigo.

Sbollentate un paio di foglie di verza nel brodo era 1', mettetele in un contenitore cilindrico stretto e ottenere, con un frullatore ad immersione, un'emulsione con un filo di olio evo e un cucchiaio (due) di brodo. Mettere da parte. Tirate la sfoglia, le volte che ritenete opportune e come siete abituati, e terminate ottenendo una sfoglia non troppo sottile ma neppure che si spezzi durante la cottura. Sbollentate le sfoglie, una per commensale, per 1’ nel brodo sgrassato. Raccoglietele con un ragno e mettetele ad asciugare sopra un panno pulito (sempre no detersivo e no ammorbidente).
Impiattate spennellando l’emulsione di verza la sfoglia, stendete sul piatto, versare una cucchiaiata di castadina, chiudere a libro, continuare con un'altra cucchiaiata di cantaridina e profumare con una macinata di pepe di cubebe e qualche pistillo di zafferano. Servire fumante.