I suoi racconti portano alla luce l'America più profonda e nascosta, proletaria, spelacchiata e sperduta; quella dei lavoratori, dei litigi familiari, dell'alcolismo, della disperazione controllata, delle storie che non si vedono in tv. Il suo realismo visionario, come dice Gigliola Nocera, «ha fatto scoprire al mondo un'America anonima e marginale che nessuno conosceva e le ha conferito l'immortalità dell'epopea». Epopea che c'è allora, sì; ma è un'epopea depurata, risucchiata, banalizzata, ridotta all'osso. Epopea delle piccole cose, epopea della tragedia quotidiana.
In Carver c'è la vita che entra nella pagina e ritrova se stessa e si riscopre più vera della vita stessa. C'è la scrittura che è atto estremo di scoperta. C'è una fiducia totale nel potere della parola, nel suo effetto benefico. Ed è anche a causa di questa fiducia che Carver leggeva e rileggeva i suoi racconti, li correggeva e ricorreggeva, seguendo gli insegnamenti dei suoi grandi maestri John Gardner e Gordon Lish. Il primo fu suo insegnante di scrittura creativa presso la Chico State University, il secondo lavorava come caporedattore per la narrativa presso la rivista «Esquire» e fu il suo primo vero editor (grazie a lui Carver pubblicò la prima raccolta di racconti nel 1976, “Will You Please Be Quiet, Please?”; titolo italiano “Vuoi stare zitta per favore?”, tradotto da Minimum Fax, 1999). Il primo gli insegnò a dire quello che voleva dire con quindici parole anziché venticinque. Il secondo gli insegnò a dirlo con cinque anziché quindici.
E questo faceva Raymond Carver, modellava e scalpellava, limava, ripuliva, alla ricerca di uno stile essenziale, secco, indicibile, drammaticamente perfetto. Lavorava sui suoi errori: «Finché non sembravano fatti apposta», come dice uno dei suoi personaggi nel racconto “Febbre”. Lavorava sulla lingua che doveva essere priva di elementi troppo letterari, troppo colti, troppo pretenziosi. La poesia e la bellezza di Carver stanno proprio in questo; nel saper scegliere sempre la parola giusta, l'ordine giusto, l'espressione giusta, la punteggiatura giusta. La sua immensa bravura sta nel saper pulire tutto e poi far scomparire questo lavoro di pulizia, come se ogni cosa fosse stata lì da sempre, liscia e scintillante, piena di luce, perfetta, assoluta. Carver scolpisce tutto con una maestria e una padronanza senza eguali. Ed è ironica coincidenza che carver in inglese voglia dire proprio questo: scultore.
Raymond Carver fu scultore di racconti e poesie. Ma prima di questo, prima di diventare un artista, prima ancora di diventare ventenne, Raymond Carver fu il padre di due figli. Quella fu la più grande svolta della sua carriera e della sua vita. Dirà lui stesso che:«Nulla di quanto mi era mai successo nella vita, poteva anche solo avvicinarsi, poteva essere così importante per me, poteva essere di rilievo pari al fatto che avevo due figli. E che li avrei avuti per sempre».
Come un personaggio dei suoi racconti portò avanti per anni la sua piccola tragedia, lottò con la preoccupazione di portare pane e latte a casa. Cadde e si rialzò, sprofondò nell'alcolismo e si riprese. Senza eroismi, perché il tempo degli eroi è finito. Era padre di giorno e scriveva racconti la notte. Scriveva racconti, perché, come dichiarava, tra un turno di lavoro ed un pomeriggio in lavanderia non c'era tempo per qualcosa di più impegnativo. E perché anche il tempo dei grandi romanzi è finito.
Quest'elemento rimarrà sempre nella sua scrittura, anche nei racconti un po' più lunghi e con un po' più di trama, contenuti in “Fires: Essays, Poems; Stories” (pubblicato in Italia con il titolo “Voi non sapete cos'è l'amore. Saggi, poesie, racconti”, Minimum Fax, 2001) e “Cathedral”pubblicata nel 1983 (titolo italiano “Cattedrale”, tradotto da Minimum Fax, 2002). Perché la tragedia non sta nella scrittura, sta nella vita e nella realtà e l'autore non ha modo di comunicarcela apertamente, può solo farcela percepire. Come il protagonista del racconto che intitola la raccolta “Cattedrale”, il quale non sapendo spiegare con le parole la forma di una cattedrale al suo interlocutore cieco, finisce con il disegnargliela pezzo dopo pezzo, linea dopo linea, mentre quello lo segue con il dito. Allo stesso modo l'autore ci spiega cos'è per lui la scrittura e quindi cos'è la vita.
Raymond Carver è stato definito minimalista e postmoderno, etichette che vanno prese entrambe con cautela. Perché Carver è in effetti minimalista e postmoderno, ma come in ogni cosa lo è a modo suo. Non può dirsi minimalista se ci si dimentica che dietro il suo minimalismo si nasconde una grandissima accuratezza ed una piena consapevolezza , nonché una profonda fiducia nel valore del suo mezzo espressivo. E non può dirsi postmoderno se non si tiene in considerazione la grande importanza che dava alla ricerca di realismo, seppure interpretato in maniera personale, nel racconto. Carver è postmoderno nella sua maniera di intendere la società in cui vive; una società così complessa da aver perso ogni certezza, travagliata e contraddittoria, costantemente in bilico tra progresso ed autodistruzione. In questo Carver è postmoderno; nel suo tentativo di scandagliare e scoprire questa stessa società attaccandola da altri lati, colpendola di sbieco, senza inutili eroismi e falsi ideali, con lucidità, ironia e coraggio.
Perché non si può più rischiare di fare la fine del cavaliere descritto nel racconto “Di cosa parliamo quando parliamo d'amore”, che, incapace di alzarsi da cavallo a causa della pesante armatura, aspetta immobile che passi qualcuno a trafiggerlo. Bisogna essere liberi e snelli, privi di pesanti impalcature ideologiche, bisogna saper cadere e subito rialzarsi, sbagliare e subito riprendersi. Questo è quello che deve insegnare la letteratura in un mondo senza più eroi. Questo insegna Raymond Carver. Ed è anche per questo che oggi, chiunque e si appresta a scrivere un racconto, da qualsiasi parte del mondo, non può non fare i conti con lui e con il suo incredibile stile.