Diciassette racconti scavati nel midollo della vita. Parlarne non risulta solo difficile, ma quasi ingiusto, come se ogni aggiunta, ogni singolo commento non potesse far altro che svilire Di cosa parliamo quando parliamo d'amore, opera di Raymond Carver da noi letta nell'edizione pubblicata da Garzanti nel 1987 con la traduzione di Livia Manera.
Ad un primo impatto non riesci a comprendere cosa voglia realmente raccontarti, che storia, che morale stia dietro i momenti quotidiani, o i ricordi abbozzati, o le sequenze interrotte bruscamente laddove ti saresti aspettato una svolta. Carver delude. Eppure ti resta in fondo allo stomaco e non si scolla. Perché, mentre la mente continua a rigirarsi le parole per dargli un senso, loro - quelle stesse parole brutte, comuni e sporche - hanno già fatto il proprio dovere.
Il minimalismo letterario americano, cui l'autore in questione appartiene e del quale è considerato il leader, nasce sul finire degli anni '70 del secolo scorso con le prime raccolte di racconti di Carver e di Ann Beattie, nutrendosi di una limpida essenzialità narrativa, derivata certamente dall'esempio di Hemingway, e mettendo in scena le semplici esistenze di esponenti della classe media, con un moto di ritorno alla vita autentica.
"La narrativa non deve fare niente. Deve solo esserci, per l'ardente piacere che ci viene dallo scriverla e per il diverso tipo di piacere che ci viene nel leggere qualcosa di duraturo e scritto per durare, oltre che bello in sé e per sé. Qualcosa che getti qualche scintilla in un chiarore persistente e saldo anche se fioco". Questa, per usare le parole del capofila, sembra essere la summa di un movimento che non intende suggerire critiche o improntare discussioni sulle cause e sulle conseguenze dei disastri della società, ma solo metterli in scena, mettendo da parte l'ego dello scrittore riconosciutosi impotente registratore della realtà. Al lettore viene pertanto demandata la sintesi, la conclusione dei quadri che, momento per momento, senza eccedere nei particolari ed evitando tutti gli avverbi che possano connotare in astratto, chi scrive analizza. Ed è proprio per questo stretto legame che intercorre tra narrazione, lettura ed oggetto della stessa che il minimalismo di Carver continua ad ispirare scrittori di successo internazionale del calibro di Murakami e Palahniuk.
Ma ritorniamo a Di cosa parliamo quando parliamo d'amore. Della vita interiore dei suoi personaggi Carver sembra infischiarsene, tutti presi come sono da litigi, notizie trasmesse al telegiornale e battute di pesca ed è per questo che gli scatti fulminei, gli improvvisi accessi di rabbia e le risate ci sembrano uscire dal nulla. Così in Ancora una cosa ci troviamo subito nel mezzo di un litigio familiare, che fin dall'inizio sappiamo terminerà con un marito buttato fuori di casa, ma delle ragioni di Maxine e di L.D. non ci è dato sapere nulla: abbiamo le frecciate cariche di astio e non detto, i movimenti abbozzati e le minacce di lui, la risoluzione di lei, ma non va oltre questo. I ricordi sono legati agli oggetti e gli oggetti chiamati in causa solo quando la persona interagisce con essi. "Ci ho riflettuto. Voglio che tu te ne vada. Stasera. In questo momento. Ora. Vattene immediatamente di qui" è la voce della moglie che mette L.D. alle strette in un hic et nunc che fa della frammentarietà la sua forza, il tramite per esprimere un'esistenza di emozioni e pensieri che Carver rifiuta costantemente di riprodurre mimeticamente, ma che scaturisce più forte dall'afasia delle cose e delle azioni. Per questo il racconto in questione, col suo epilogo bruciante, risulta esemplare.
Anche il racconto eponimo, tra l'altro al centro della vicenda di Birdman, pellicola pluripremiata e Oscar 2015 come Miglior Film, scorre liscio e breve, nonostante sia forse quello più lungo dell'intera raccolta, con una struttura che, a ragion veduta, ben si presterebbe ad un adattamento teatrale. Eppure dietro il racconto, in prima persona e di chiarezza quasi impressionistica, si cela, senza nemmeno troppo impegno, una cornice chiaramente simposiaca che include diverse narrazioni che ruotano tutte attorno al più classico degli argomenti, l'amore. È un amore vicino, fatto di dolore e irrazionalità, scaturito dalla vita cruda e a tratti cruenta della piccola borghesia. Il tutto con un inevitabile riferimento autobiografico ai trascorsi da alcolista dello scrittore, dei quali ci pare di avvertire una chiara minaccia nei gesti dei protagonisti, nei raptus di Mel il quale si ostina a voler raccontare la sua storia, quasi un alter ego dello stesso Carver. "C'è da dire che ognuno è sempre il vessillo di qualcun altro. È vero o no?".
Al termine del libro non sembra di aver percorso una strada lunga, né d'aver raggiunto chissà quale rivelazione, solo d'aver ascoltato per qualche istante il "rumore umano che facevamo tutti" e d'aver risuonato, nel profondo di ogni storia, della stessa umanità.