All’inizio dell’anno scorso è uscito uno di quei rari casi di film italiano che non vedevo l’ora di vedere, ma per qualche strano motivo mi ero completamente scordato della sua esistenza. Poi qualche giorno fa l’ho rivisto e mi è tornata voglia di vederlo. Razzabastarda è il primo film come regista, oltre che come interprete, di Alessandro Gassmann, che per anni ha vissuto all’ombra della gigantesca ombra del padre, Vittorio, ma che spesso ha dimostrato delle grandi doti artistiche e questo film è la testimonianza che Alessandro non è famoso solo perché figlio d’arte, ma anche perché ci sa fare. La pellicola è l’adattamento cinematografico di una piece teatrale cubana “Cuba and his Teddy Bear”, resa famosa in America da Robert DeNiro negli anni ’80, che la portò in giro per Broadway. Qualche anno fa, invece, lo stesso Gassmann l’ha portata in giro per i teatri nella sua versione italianizzata “Roman e il suo cucciolo”, finché l’anno scorso non ha esordito anche nei cinema.
Roman è un immigrato rumeno che si trova in Italia da 30 anni. E’ semi-analfabeta e oltre a gestire un piccolo sfasciacarrozze alla periferia di Roma, intrattiene uno spaccio di stupefacenti e amicizie criminali nella malavita rumena. Tutto quello che fa, però, è per sostenere il figlio Nicu e fargli avere la vita che lui non ha potuto vivere. Dall’altra parte, invece, Nicu è restio ad accettare le sue origine rumene, che non confessa neanche alla sua ragazza, e prende consigli di vita da un artista spiantato, il Talebano, che lo farà finire nello stesso mondo criminale dal quale il padre cerca di tenerlo lontano.
Benché la storia non sia delle più originali e i personaggi siano piuttosto stereotipati nell’immaginario collettivo, il film funziona piuttosto bene. Il dramma e la miseria sono resi ancora più vividi dalla scelta fotografica del bianco e nero: un gioco di contrasti e di scuri che rende tutto molto “sporco”, che sia il volto di Roman o la topaia dove abita con il figlio. L’assenza di colori è anche assenza di speranza e di futuro; il nero inghiotte tutto e fa sentire allo spettatore la tristezza e la drammaticità delle atmosfere. Gassmann dà il suo meglio anche nella recitazione e la resa è ottima: l’atteggiamento, la parlata e i gesti richiamano nello spettatore l’immagine stereotipata dell’immigrato. Una volta che il film ci presenta quest’immagine che almeno una volta nella vita tutti abbiamo visto, si spinge oltre e si chiede “perché?”…perché queste persone conducono questa vita? Le aspettative di rivalsa sociale dell’immigrato vengono bruscamente messe a tacere nella nuova terra, dove non trova altro che miseria ed emarginazione; tutto quello che può fare è sperare il meglio per la sua prole.
Il film funziona quasi completamente, se non fosse per un paio di cose veramente fuori posto che riguardano interamente il rapporto padre-figlio. La prima è il troppo distacco e la troppa differenza di atteggiamento tra i due. Ovvio che un figlio non dev’essere come il padre, ma all’inizio del film sembra di star guardando un ragazzo medio-borghese che si confronta con un immigrato un po’ alticcio: il secondo che si avvicina, abbraccia e parla a vanvera mentre il primo che cerca di ritrarsi dalla situazione imbarazzante. La seconda è che comunque il rapporto poteva essere approfondito meglio sotto il lato psicologico, mentre i temi cinematografici impongono che la storia abbia il sopravvento sull’introspezione.Il film è comunque molto degno di essere visto, perché è una pellicola italiana che non è la solita commedia per fare due spicci ed è anche particolarmente bella in alcune sfumature, soprattutto per quanto riguarda la regia e la fotografia.