Re-istituzioni.
Creato il 07 marzo 2014 da Lostilelibero
Il rispetto per le Istituzioni, tanto
più in Italia, non ha senso alcuno. Si potrebbe anche concedere a questi
novelli idola un qualche alito di
deferenza, quella che si conviene alla paura di un’eventuale rivalsa sull’eversore
inerme, ma niente più. In tal senso le parole dell’onorevole Boldrini
sull’eversione grillina, prese esemplarmente come prototipo del defensor fidei istituzionale, chi le
capisce?
Qualsiasi questione sulla presunta
legittimità di ciò che è istituito quindi, oltre ad essere comicamente
spigolosa, viaggiando di pari passo cogli sfaceli che quelle stesse istituzioni
hanno operato tafazzianamente su sé stesse, andrebbe quindi trattata coi guanti
di velluto. La stringente temporalità della cronaca riporta ruvidamente alla
memoria la sentenza della Corte Costituzionale del dicembre scorso, che
abrogando il porcellum, salvo poi riabilitare l’elezione di quel parlamento
decretandone inspiegabilmente la legittimità, lo rende di fatto ancor più
abusivo (la necessità di salvare il salvabile per dare ancora un alone di
prestigio alle istituzioni dello Stato segnala parimenti la necessità della
stessa Corte di sopravvivere alla propria sentenza).
Il sillogismo, come è stato peraltro
ricordato dagli interventi “en passant”
di qualche autorevole opinionista, rende de
facto il parlamento incostituzionale, delegittimando il governo e la sua
azione, compresa anche la sudata elezione del Capo della Repubblica, oltre che,
qui i cronisti, a dirla tutta, sono apparsi un tantino meno puntuali, della
Corte Costituzionale stessa: essendo stata eletta per un terzo dal Parlamento e
per un altro terzo dal Presidente della Repubblica (entrambi formalmente illegittimi).
Questa la cronaca, scivolata
sbrigativamente addosso agli italiani senza che ne cogliessero il peso. In
realtà, ogni presunto discorso sulla legittimità dell’istituzione in genere è
molto meno complesso di quanto si possa supporre, e non abbisogna di alcuna
sentenza calata dall’alto per essere infine compreso nella sua dirompente
chiarezza.
Flaubert, fonte primaria di quel che
forse è stato il più famoso passaggio di legittimità nella storia moderna, ci
dice asciuttamente ciò che ogni potere istituito è prima di tutto:
un’invenzione che abbisogna di un costante auto
da fè che ne rinvigorisca la legittimità. Scrive infatti nella sua
Educazione sentimentale: “ma non ce n'è
uno, di governo, che sia legittimo, ad onta dei loro eterni principi. “Principio”
vuol dire “origine”. E dunque bisognerà rifarsi, in ogni caso, a una
rivoluzione, a un atto di violenza, a un fatto transitorio”.
Un’istituzione quindi, prima di tutto,
dev’essere creduta vera. E’ una finzione, una metafisica creduta utile solo per preservare il quieto vivere, un’astrazione che
poggia il proprio grado di autorevolezza sul numero di persone disposte ad accordargli una qualche
smorta veridicità.
Da questo punto di vista il re era
legittimo almeno quanto l’astrazione dello Stato moderno o della democrazia rappresentativa (per coloro
che ancora ci credono non sarà difficile riscontrare i motivi del suo precoce
fallimento: la riproposizione della consueta necessità al comando, quella che vuole ridurre il
“potere del demos” all’efficienza e all'utilità,
ciò che in politichese viene chiamata "governabilità"). Bloch nei Rois
Thaumaturges svela la devozione – e con essa pure la legittimità - di cui i re
erano investiti dal popolo. Un popolo che anche mentre l’ancien règime andava a pezzi, si rivolgeva all’inetto imparruccato
Luigi XVI nella speranza che quel “padre”
potesse ancora porre rimedio alle loro sofferenze: ancora nel 1722, all’incoronazione del re Luigi XV, circa duemila scrofolosi accorsero al parco di Saint Rémy a Reims per ricevere il suo tocco. Fino all’alba della
Rivoluzione il popolo francese dunque, in attesa dell’illuminazione portata dai
sanculotti, accordò al sovrano amore, stima e attaccamento, confidando nella
sua santità.
L’informazione sarà forse un colpo al cuore
per tutti i totalitari democratici... Eppure non sempre la legittimità delle
istituzioni si è rinvigorita attraverso le elezioni e i referendum, ritemprando
nei parla-menti la propria liceità. Vi sono state infatti epoche in cui si disquisiva meno sulla legittimità di un’istituzione riconosciuta dalla maggior parte
(democratica o meno) del popolo, ma nessuno, al pari di oggi - per una convenzione comunemente accettata - si
sognava di metterne in dubbio l'autorità (per usare le parole di Nietzsche sulla morale: "la moralità non è altro che l'obbedienza a dei e costumi (...) l'uomo libero è immorale, in quanto vuole dipendere in tutto da se stesso e non da una tradizione". L'autorità è creduta vera solo perché "comanda", obbliga un uomo che necessita della dipendenza per sentirsi appartenente ad un qualcosa che reputa più importante di lui. L'istituzione prevede sempre un uomo che si voglia sottoporre ad essa!).
Da questo punto di
vista (democraticamente) la lex salica
vale quanto il codice penale, e il lignaggio, sia pure quello derivante
dall’origine divina della stirpe, ha lo stesso peso della Costituzione o del
Primo Ministro. Il nome si fa legge!
Oggi però, mancando il profondo stato di
necessità che imponeva a quegli uomini "bruti" e "non liberi" di affidarsi ad un tutore perché li
proteggesse, non abbiamo più nemmeno la dignità data loro dal rischio: laddove il
contadino Jacques Bonhomme avrebbe forse già dato un calcio nel culo a più di
un parlamento, noi, con tonta sfrontatezza, ci sentiamo invece liberi e
migliori, e con questa libertà abbiamo scelto di sottoporci ad un monarca che
si rinnova ogni 5 anni… è il progresso da divano, la libertà di poter decidere
in tutta autonomia di essere schiavi, l’inscalfibile democratica bellezza.
Chi lo capisce il vilipendio o la lesa
maestà quindi?
Il vilipendio è solo un atto che va
contro ad una tradizione sedimentata a cui tutti, sbadatamente obbediscono;
contro un’abitudine a cui ci hanno insegnato ad accordare fede incondizionata; contro
la fiducia nella convenzione comune.
L’istituzione è un flatus vocis, e il rispetto che le si deve una paura immobilizzante
la singolarità.
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