Il gioco è un’esperienza di crescita. Quando un bambino si dedica al gioco accede ad una realtà che non è solo immaginata, bensì viene creata.
Il gioco comporta uno stato di pieno coinvolgimento, una condizione di immersione totale.
Genera un altrove, per uscire dal quale, prima che sia il bambino stesso ad aver deciso l’avvenuta conclusione, è necessario che la realtà vi penetri abbastanza invasivamente e prepotentemente.
Può essere un genitore che richiama il piccolo ai propri doveri, una mamma che sentenzia che l’ora è tarda o un papà che annuncia il piatto pronto in tavola.
Ma non sempre, nonostante gli appelli, il bambino balza repentinamente fuori dalla dimensione ludica, spesso è per lui più naturale inglobare in essa gli elementi reali che lo circondano e sperimentarli come parti integranti del suo universo creato.
(Ogni bambino è artefice e creatore di universi, tanto da diventare, nel suo spazio fantastico, una sorta di dio. E qui mi viene in mente un altro albo, poco noto, ardito ed originale, sempre edito da Il Castoro: “Il piccolo creatore”, con testi e illustrazioni di Annette Swoboda)
Proprio questo limite sfumato tra realtà e finzione, questa contaminazione perenne e facilitata tra ciò che arriva dall’esterno e ciò che è generato dall’interno, permette al bambino di provare emozioni vere, autentiche, anche “al di là del confine della realtà”.
L’ambiente dell’immaginazione è più vasto di quello del concreto, quindi il territorio aperto alla sperimentazione è colmo di possibilità. E le sfide, come anche le soluzioni, che il piccolo affronta nel suo mondo di gioco sono introiettate come elementi di crescita, che arricchiscono il vissuto esperienziale e conferiscono risorse.
Affrontare, quindi, i mostri – o i draghi – giocando, fare gruppo, provare paura e cercare di sconfiggerla, immedesimarsi in un ruolo assumendosene gli oneri come gli onori… sono tutti passaggi che i bambini compiono quotidianamente e dai quali imparano e grazie ai quali crescono.
In “Re Valdo e il drago”, albo illustrato di Peter Bently e Helen Oxenbury, recentemente portato nelle librerie italiane da Il Castoro, viene raccontato, con un testo musicale in rima e grandi tavole aggraziate, un classico gioco di fantasia dei piccoli, dal momento della partenza per l’avventura fino alla sua conclusione, a sera.
“Facciamo che ero”, dicono i bambini nell’imperfetto – tempo perfettissimo – della loro immaginazione, e diventare un re con tanto di fidi cavalieri è questione di un attimo.
(Helen Oxenbury, come molti ben sapranno, è l’illustratrice di quello che, a mio parere, è uno dei più begli albi per l’infanzia mai pubblicati: “A caccia dell’orso”, con testo di Michael Rosen ed edito in Italia da Mondadori. In questo nuovo lavoro, pur con differente co-autore, trovo diversi rimandi all’altro libro.
A partire dai risguardi di copertina, che mostrano la traccia dei tronchi fitti di un bosco. In questi è facile riconoscere quelli che precedentemente facevano SCRIC SCROC e sopra ai quali e sotto ai quali non si poteva affatto passare…
Altri punti in comune sono la musicalità del testo – ritmico pure in “A caccia dell’orso”, pur in assenza di rima – e la tematica delle paure infantili, che lì era centrale e mirabilmente rappresentata, mentre qui è inserita in una riflessione più ampia e sfumata sul gioco e sulla fantasia)
Valdo è un bel bambino sui quattro-cinque anni, con una zazzera chiara e un bel colorito roseo su un viso paffuto. Ma per i lettori e per i suoi due amici – Teo, un coetaneo scuro di pelle e capelli e Berto, un bebè abbigliato con pagliaccetto giallo e con tanto di ciuccio in bocca – è da subito Re Valdo. La corona, altezzosamente indossata, così come la spada di legno o cartone, spavaldamente portata, ne sono conferma e suggello.
I tre, in fila ordinata, vanno a costruire un castello e lo fanno procurandosi i materiali giusti: una grande scatola, un lenzuolo, vecchi mattoni, un’asta sulla quale far sventolare uno straccio a mo’ di bandiera.
Seguono infatti tre ampie tavole sviluppate sulla doppia pagina che mostrano la grandiosa battaglia dei bambini contro i draghi, prima, e contro i mostri, poi. Nella terza entrambe le specie di bestioni battono ritirata.
In quest’albo è interessante notare che le figure che occupano l’intera doppia facciata sono poche rispetto a quelle confinate su una sola o alle altre piccine che inframezzano il testo. Inoltre l’obiettivo si sposta per inquadrare ora scene più vaste da maggiore distanza, ora per mostrare i personaggi più da vicino, sovente da una prospettiva ad altezza di bambino.
Le tavole sulla doppia pagina sono panoramiche e sottolineano momenti topici della storia chiamando il lettore ad una maggiore e più coinvolgente immersione.
Il paesaggio in particolare subisce una lieve ma significativa mutazione nel corso della storia. Inizialmente i bambini si muovono in quello che sembrerebbe un giardino di casa, seppur ampio e rigoglioso (in un disegno si intravede quello che pare il profilo di una staccionata). Nel culmine del combattimento, però, diremmo di trovarci nel fitto d’un bosco (quella che, alla trama, appariva come una bassa staccionata sembra ora l’ombra di una vegetazione buia e intrigata).
L’ambientazione continua a parere boschiva, incupendosi o distendendosi a seconda del momento narrativo, fino all’ultima scena, nella quale la comparsa confortante dell’abitazione domestica, con tanto di luci accese, riporta l’atmosfera ad una dimensione più casalinga, ristretta e serena.
Ma torniamo ai nostri tre piccoli eroi combattenti. Sfidare insieme terribili nemici ha rinsaldato il gruppo, creando un legame che non può essere spezzato semplicemente dall’arrivo dell’ora serale.
“Dormiremo qui insieme” stabilisce il re – quasi un ordine – mentre è al sicuro con i suoi fidi nel confortevole spazio del sontuoso castello di stracci e cartone.
Ma ecco che la realtà irrompe nelle sembianze di un genitore che arriva all’improvviso a sottrarre Teo.
E’ un papà, si nota dal calzone e le scarpe stringate, ma come tale non può essere riconosciuto perché i bambini sono ancora immersi nella loro dimensione fantastica.
Va quindi inglobato in essa e diventa un gigante. E’ un essere fiabesco e smisurato a costringere Teo alla ritirata domestica. Anche Berto è tirato via da un essere simile, ma di sesso femminile, lo si capisce dall’abito quando afferra sottobraccio il bimbo per condurlo a letto.
I due genitori non sono mostrati a figura intera: la loro stazza imponente – da veri giganti – non entra nel foglio, se ne posso carpire solo alcune porzioni. La prospettiva, d’altra parte, è quella dell’infanzia, come già accennavo. Dei grandi si nota solo la parte inferiore del corpo o le braccia che stringono il bebè.
La scena è tutta dedicata alla protesta dei piccoli che non vorrebbero abbandonare il gioco e tirano, spintonano o tendono impotenti le braccia.
Valdo è ora rimasto solo. Potrebbe, forse, interrompere la finzione ludica ma l’immersione nella fantasia è tale che egli non si percepisce più come un bimbetto di pochi anni bensì come un vero e proprio re, con tanto di doveri regali (i bambini giocano molto seriamente).
Resistere nel suo castello, pur in solitudine, nonostante l’oscurità che avanza, è quindi necessario e i rumori sinistri che si levano dal buio vanno affrontati facendosi coraggio.
Può dirsi ancora gioco ma, a ben vedere e sentire, ha poco di divertente. Valdo, così come il piccolo lettore che lo segue accorato, sta vivendo ora un’esperienza emozionale reale, vera e viva, intensa quanto paurosa.
Ma gli autori non hanno alcuna intenzione di lasciar spezzare la corda che stanno tirando. Esattamente come in “A caccia dell’orso” l’infanzia va alla fine rassicurata, in maniera tale che la messa in ballo della paura venga risolta favorevolmente e sia positiva la catarsi che si sperimenta con la lettura.L’apice del pathos narrativo è affidato all’unica pagina priva di illustrazioni di tutto l’albo.
Uno sfondo bianco sul quale svettano grandi caratteri neri, che variano in dimensioni non soltanto per suggerire un’interpretazione durante la lettura ad alta voce ma anche per sottolineare a chi legge, autonomamente o in maniera condivisa, su quali elementi focalizzare l’attenzione.
“All’improvviso (arriva) una cosa con quattro piedi”. Un drago, sicuramente! Forse uno dei terribile e spaventosi messi in fuga durante la battaglia (d’altra parte i draghi, a ben osservare, parevano molto più minacciosi dei mostri, i quali, più che personaggi di una ridda selvaggia, rassomigliavano a pupazzi buffi, bonaccioni e un poco perplessi).
Valdo, terrorizzato, cede all’invocazione del soccorso di mamma e papà ma, pur col primo piedino fuori dal suo mondo d’immaginazione, non può proprio rinunciare al ruolo: anche nella disperazione è ancora un re e il lembo della scatola ancora un ponte levatoio
Già la successiva tavola comincia a svelare il mistero. Per far da specchio all’emozione che inizia a distendersi, anche gli alberi, da sagome spettrali che erano, appaiono ora più definiti e familiari, complice anche la luna piena che da dietro le fronde fa capolino.
La grande sagoma nera, dalla quale spuntano i coni di luce prodotti da due torce, non è altro che quella congiunta dei genitori di Valdo che, premurosi, vanno alla ricerca del loro piccolo guerriero.
L’abbraccio tra il bambino e la mamma suscita, allo stesso tempo, un gran sospiro di sollievo, che spazza via ogni residua traccia di tensione, e uno struggente senso di tenerezza, grazie anche alla capacità della Oxenbury di suscitare moti di dolcezza con le sue figure umane (si pensi alle deliziose tavole piene di marmocchi di “Dieci dita alle mani dici dita ai piedini”).
Come ho già accennato in precedenza, il racconto si conclude con l’atto caldo e rassicurante del rincasare.
La notte è meno buia, un letto soffice attende l’eroe, ma il gioco, che è stato tanto coinvolgente, fa ancora fatica a lasciare campo libero al reale. Valdo è trionfante, felice, ma non si trova sulle spalle di un affettuoso papà, bensì sicuro a cavallo di un grande gigante.
Vorrei aggiungere ancora qualche considerazione.
Scrive Suzy Lee nel suo saggio che fa da corredo e approfondimento a ”La trilogia del limite”: “Anche il colore è una componente importante dell’arredo di una storia. Un suo uso limitato attira l’attenzione del lettore, portandolo a riflettere sul suo significato”
Viene infatti spontaneo, in un libro come questo, nel quale immagini a colori si intervallano con altre in bianco e nero, interrogarsi sul motivo di una tale scelta figurativa.
E’ difficile, infatti, che un bravo illustratore compia delle scelte puramente estetiche senza conferire alle sue composizioni anche caratteristiche contenutistiche, che contribuiscano cioè a costruire il senso della narrazione insieme, o addirittura oltre, la componente verbale.
In un primo momento ho pensato ad una chiave di lettura abbastanza classica: che l’uso del colore o meno servisse all’autrice per sottolineare lo stato o meno dei personaggi nella dimensione fantastica. In effetti nelle prime immagini a matita i bambini chiamano ancora gli oggetti che utilizzano con il loro nome reale (scatola, lenzuolo, mattoni…). Ma questa interpretazione non regge via via che si va avanti con la storia.
Ho avuto allora un’illuminazione: il ritmo! L’alternanza di figure in bianco e nero e tavole colorate crea una sorta di ritmo nel quale le immagini mono tinta fanno da note distensive. Sono attimi in cui la tensione si allevia e il lettore può seguire il racconto più pacatamente. Il colore invece crea dei picchi, sottolinea momenti topici, chiama un’attenzione più viva.
Un susseguirsi che rassomiglierei ad una linea che procede retta per dei piccoli tratti per poi alzarsi in curve più o meno alte in corrispondenza delle figure ad acquarello.
Il pathos però non è mai violento, rimane sempre stemperato ed addolcito dalla mano morbida della Oxenbury, che non calca mai troppo e pare sempre accarezzare il bambino lettore anche quando lo chiama a confrontarsi con paure o emozioni forti.
D’altra parte per sposare un testo in rima, così scandito e musicale, anche le illustrazioni devo avere la loro cadenza. In tal modo il connubio tra le due componenti non è solo sul senso ma anche sull’armonia.
Altre note eufoniche tra le due parti, verbale e iconica, sono sicuramente quelle che concernono la delicatezza ma anche un comune guizzo allegro, che ammicca dietro i buffi pigli dell’infanzia, che fa sorridere amabilmente chi legge. Come tutte le mosse compiute dal piccolino del gruppo, ancora un infante ma risoluto, sicuro e coraggioso come, se non di più, i suoi compagni più grandi.
Infine, mentre leggevo ad alta voce il racconto, mi sono sorpresa a collegare qualche passaggio, il susseguirsi di alcune parole e le stesse parole scelte, alle vivacissime filastrocche che compongono le celebri storie del Dottor Seuss. Dopo essermi sorpresa di questa stramba associazione – di tutt’altro genere, ritmo e turbinio sono i libri dell’amatissimo autore americano – mi sono accorta che la traduttrice è di fatto la stessa: Anna Sarfatti.
Mirabile con le rocambolesche avventure degli improbabili eroi seussiani e ottima anche qui, nella difficoltà di riprodurre un testo rimato da una lingua ad un’altra, non perdendo né in senso né in musica e dando vita ad un componimento brioso, ricco e molto adatto alla lettura ad alta voce, anche quella dedicata ai bimbi piccini i quali, pur non cogliendo tutto il senso del racconto, possono restare incantati dalla musicalità della lingua.
(età consigliata: dai due anni e mezzo)
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