Ogni luogo nel mondo, anche il più abietto o il più disdicevole, se si accetta la sfida, quella stessa accolta dal primo Abramo, può essere anch’esso luogo d’incontro con Dio.
E non mancano gli esempi se, da un prigioniero di un carcere di massima sicurezza, a Kamiti, estrema e desolante periferia di Nairobi, in Kenya, possiamo sentirci dire: ”Qui ho avuto e ho tutto il tempo che una persona può desiderare per essere vicino a Dio. E questo, messe tra parentesi, con pentimento sincero, le mie passate malefatte, mi ha dato e continua a darmi il coraggio necessario,che mi porta a pensare che anche la prigione possa essere progetto di salvezza per me”.
Il Figlio è nato, infatti, e la promessa di Dio è attuata (Gen 21,1-5).
Tutto ha inizio da qui.
L’artista, Antonio Palumbo, nel suo “Crucifige” tenta di rappresentare , con i propri “ferri del mestiere”, i”crocifissi” del quotidiano. E ci squaderna, in tutta la nudità reale e metaforica, quella che è la condizione umana storica.
E lo fa con un realismo plastico straordinario ,che ci consente di riconoscere le ferite “urlate” e “urlanti” di una umanità dolente, nelle “figure” dei suoi soggetti e interiorizzare al contempo, grazie all’evidenza del tratto marcato e del colore esangue dei corpi, il dramma del mistero di quel buio fatto di un niente, in cui troppo spesso la vita dell’uomo si avviluppa e si contorce, in apparenza senza scampo, per un inciampo imprevisto e/o imprevedibile.
Ma la “croce” e i “crocifissi”, ossessivamente ripetuti dall’artista, è anche quel mistero, incomprensibile ai più, e il fondamento di un percorso umano e esistenziale ,che conduce di natura alla ricostruzione della persona (leggi risurrezione).
Quella ricostruzione che è natura in grazia.
Radice ontologica dell’uomo pacificato e del corpo sociale tutto se si riesce ad accettare la presenza di un Dio che agisce nella storia e non lascia mai soli, per alcuna ragione, i “suoi” figli.
di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)