Una volta sentì dire ad Angelo Branduardi queste parole: “tutti conoscono almeno un verso de La fiera dell’est, ma in pochi conoscono il mio nome, questo vuol dire che sono passato alla storia senza passare dalla cronaca”. Non mi ero mai chiesto, fino ad allora, quale fosse la differenza, la sfumatura semantica, tra cronaca e storia, e sono giunto alla conclusione che, almeno nell’universo della narrazione, nessun racconto è destinato in partenza a una delle due categorie; se un fatto è vero, autentico, è solo il modo di raccontarlo a decretarne la nobiltà, per quanto misera possa essere la porzione di umanità o di realtà rappresentata, perché indubbiamente non tutti i fatti sono uguali, ma è anche vero che un pezzo di vetro, se ben lavorato e levigato, brilla più di un diamante grezzo. Matteo Garrone è un regista evidentemente affascinato dalla cronaca, il suo primo grande successo, ovvero L’imbalsamatore, è ispirato alla storia di Domenico Semeraro, noto come il nano di Termini, mentre Primo Amore riprende le sevizie del “cacciatore di anoressiche” Marco Mariolini. Quando venne fuori la notizia che il regista romano, dopo il successo internazionale di Gomorra, stava preparando un film sul Grande Fratello, sicuramente non fui l’unico a storcere il naso; seppure è innegabile che la trasmissione sia rilevante in quanto motore o catalizzatore di taluni cambiamenti culturali, la stessa richiama immagini e situazioni ben circoscritte nel tempo e nello spazio sociale, insomma, in poche parole pensai che Garrone stesse passando dalla storia alla cronaca. Fortunatamente, come spesso succede in barba ad un vecchio adagio, la prima impressione si è rivelata sbagliata. Il sogno di Luciano di entrare nel Grande Fratello non è solo il resoconto di un’ossessione, ma è la rappresentazione scientifica, quasi la riproduzione in laboratorio, di un concetto che in sociologia è noto come anomia, e che nell’accezione data da Merton si può definire come lo stato di malessere che si verifica in una società quando le mete culturali, degli scopi esistenziali, sono realmente accessibili solo a una piccola parte di individui.
I dialoghi e il ritmo del film sono di una godibilità assoluta, la regia, meno asciutta rispetto alle altre prove dell’autore, si concede notevoli, e spesso vertiginosi, piani sequenza, come quello iniziale e finale, probabilmente realizzati con l’ausilio di un’invisibile computer grafica. L’intervento digitale è però meno discreto nella scena del grillo che costituisce, a mio giudizio, a livello formale, l’unica pecca del film che ricordo ha vinto il Gran Prix Speciale della giuria al Festival di Cannes 2012.
Insomma, Garrone ha intagliato il vetro e ne ha fatto una splendida gemma.