Una giovane semplice e timida, che fa la dama di compagnia per mantenersi, sposa un nobile e ricchissimo vedovo, e va a vivere con lui nel suo castello di famiglia, Manderley, su cui grava come un incubo il ricordo fin troppo tangibile e ossessionante di Rebecca, la prima moglie.
Questo infatti è il titolo del primo film americano di Hitchcock, e anche, forse, il miglior film di tutta la sua carriera.
Fra le molte cose che amo di questo film perfetto, c’è che è una vetta sia nell’ambito del racconto gotico che in quello del thriller, e al contempo un capolavoro del genere psicologico (che tanto affascinava il grande regista).
Si tratta di una delle pellicole in cui il genio Hitchcock analizza in maniera straordinariamente veritiera le dinamiche più profonde della psiche femminile senza incappare né in banalità né in pregiudizi misogini.
Dico che è “straordinariamente veritiero” perché molti dei sentimenti e degli stati d’animo della protagonista spesso attanagliano tante donne, anche se per motivi diversi da quelli del film, e per questo mi piace parlarne, e soprattutto, di questo particolare aspetto umano, l’incertezza, la fragilità, la paura di essere rifiutata o comunque inadeguata, spesso la paura di essere paragonata a qualcun altra e non reggere il confronto.
A volte può essere solo un’impressione data dall’insicurezza.
Nel caso di questo film, dal momento che è pur sempre un thriller, l’insicurezza della protagonista è anche volutamente alimentata dalla perfida governante del castello, come si vedrà.
Il personaggio della protagonista (Joan Fontaine) assume una centralità quasi unica, non a caso, infatti, la storia è narrata interamente dal suo punto di vista, così come accadrà ne “Il sospetto”. È proprio dai ricordi della giovane donna che si dipana il racconto in flashback, a partire dal primo incontro della protagonista con il suo futuro marito.
L’attrice è perfetta nella parte della tenera e ingenua ragazza fin troppo semplice e imbranata, che entra a far parte all’improvviso di un mondo di ricchi aristocratici in cui si sente fuori luogo, inadeguata, fragile, terribilmente insicura, pur amando moltissimo il marito, Max de Winter (Laurence Olivier in gran forma).
La vicenda parte infatti come sfolgorante e romantica storia d’amore, ma ben presto, dopo l’arrivo dei novelli sposi nel Castello di Manderley, la gioia sparisce e prende il suo posto una sorta di angoscia sentimentale spiazzante per il pubblico e per la protagonista: da subito la giovane sposa sente raccontare da tutti “quanto era bella Rebecca”, “quanto era brava Rebecca in ogni cosa”, “quanto era elegante Rebecca”, “quanto era perfetta Rebecca”, “Rebecca sapeva andare a cavallo splendidamente e sapeva pilotare il panfilo come un marinaio nato”… una sorta di lavaggio del cervello, per la già insicura ragazza che si convince di essere troppo inferiore a Rebecca, e che sarà sempre inadeguata rispetto a tanta ineguagliabile perfezione. Ma Rebecca era un’aristocratica di nascita e come tale educata a fare tutto ciò che fra gli aristocratici era “normale”: la nuova sposa è orfana da tempo, è di un’altra classe sociale, a paragone di Rebecca non sa fare nulla, è semplice, non sa nemmeno vestirsi o pettinarsi adeguatamente alla sua nuova condizione, e ne soffre, e a nulla vale ciò che il marito le dice distrattamente: “a me piaci così”, oppure “sii come sei e tutti ti ameranno”, lei non ne è convinta, e non del tutto a torto, per come vanno le cose a Manderley.
Nel castello si sente un’intrusa, un’ospite indesiderata invece che la padrona di casa. “Rebecca non aveva paura di nulla”, dicono, e lei invece comincia ad avere paura di tutto, ha soggezione della servitù e paura della tremenda governante, ma soprattutto ha paura di non essere davvero amata dal marito, di non essere in grado di reggere il confronto con la prima moglie. Ormai è in balìa di mille dubbi e non ha più alcuna certezza…Per di più sente anche dire spesso dagli altri “quanto Max amasse Rebecca”, e comincia a convincersi a poco a poco che il marito non la ama, ma si è risposato per non essere troppo solo, o per cercare di scacciare invano i ricordi e la malinconia.
La presenza di Rebecca nella casa è forte e ossessionante, come se la defunta fosse lì, viva ; la servitù, gli amici di famiglia, i parenti o i conoscenti ne parlano ancora sempre, e bene, ad eccezione del marito Max, che non la nomina MAI.
Le iniziali con la R di Rebecca sono ricamate su tovaglioli, lenzuola, cuscini, biancheria di tutta la casa; la giovane sposa se le trova davanti su quaderni, agende e rubriche nello studio, insomma sono ovunque come una persecuzione; la camera di Rebecca è chiusa, lasciata esattamente com’era al momento della sua morte, come fosse un sacrario, almeno così appare agli occhi della ragazza; e lei si pone tante domande, è confusa, comincia a sentirsi continuamente sotto esame, continuamente paragonata all’altra, e si convince di essere disprezzata per non essere alla sua altezza.
Lo dice apertamente sia in uno sfogo con l’amico di famiglia Frank, sia, più tardi, al marito Max; confessa angosciata di sentirsi inferiore a Rebecca in tutto, e di “sapere” che tutti, dai domestici al marito, quando la osservano, nella loro testa fanno paragoni fra lei e Rebecca: “so cosa pensano, non fanno altro che confrontarmi con lei”.
Questa presenza della prima moglie è resa ancor più vivida se si considera che lo spettatore non verrà mai a conoscenza del nome della protagonista, la cui persona è però costantemente presente e visibile sullo schermo; mentre il nome di Rebecca, l’Assente, è sempre pronunciato. E’ il meccanismo che Hitchcock usa in “Rebecca, la prima moglie” : ottenere un’oppressione crescente parlando di una morta, di un cadavere che non si vede mai.
Lo stato d’animo della novella sposa è in gran parte dovuto all’opera di un altro personaggio-chiave: la governante, la signora Danvers, devotissima fino all’adorazione verso Rebecca, che aveva servito da prima che si sposasse, e che non sopporta di vedere un’estranea prendere il posto della sua padrona morta. La terribile governante Danvers (ottimamente interpretata da Judith Anderson), folle, cattiva e ossessionata, con lucida pazzia persegue il suo piano per portare la nuova arrivata a uno stato di disperazione tale che le permetta di indurla al suicidio: infligge alla poveretta una lenta persecuzione psicologica, che è la causa principale della condizione di fragilità dubbi insicurezze disperazione in cui la ragazza cade.
Dice Hitchcock stesso: “Ecco una cosa che ho fatto molto sistematicamente in “Rebecca”: la signora Danvers, la governante, quasi non camminava, non la si vedeva mai muoversi da un posto all’altro. Per esempio, se entrava nella camera dove c’era la protagonista, la ragazza sentiva un rumore e la signora Danvers si trovava lì, sempre lì, in piedi, immobile. Era un mezzo per mostrare la situazione dal punto di vista della protagonista: non sapeva mai dov’era la signora Danvers e così era più terrificante; vedere camminare la signora Danvers l’avrebbe umanizzata”.
A sottolineare il senso di insicurezza che domina la giovane sposa sono anche elementi quali l’imponente scenografia e l’isolamento del castello di Manderley. Tutti questi fattori, infatti, mettono in risalto lo stato di soggezione della protagonista, che risulta ai nostri occhi sempre molto piccola rispetto agli oggetti che ha intorno. In più essi ci mostrano che la protagonista non ha vie di fuga; deve combattere in un territorio isolato ed ostico, una enorme dimora, sperduta chissà dove, vicino a paurose scogliere e al mare sempre in tempesta.
Ancora il regista dice: “La casa di “Rebecca” non aveva alcuna collocazione geografica, era completamente isolata. E’ istintivo da parte mia: “Devo tenere questa casa isolata, per essere sicuro che la paura sarà senza possibili vie d’uscita”.La casa, in “Rebecca”, è lontana da tutto, non si sa neanche quale sia la città più vicina.”
Max de Winters, il marito, per parte sua, appare assorto nei suoi pensieri e sembra non dare alla moglie l’affetto di cui lei avrebbe tanto bisogno per sentirsi meno oppressa e insicura, non la comprende e appare distaccato, quindi non l’aiuta a superare i momenti di difficoltà, non le dà le rassicurazioni e le spiegazioni che lei vorrebbe circa molte stranezze, perché non parla mai della prima moglie morta, e lei non ha coraggio di chiedere.
Lui è raffinato, freddo, ma tormentato da sensi di colpa che si sveleranno più tardi, non riesce a manifestare le sue paure segrete e perciò appare ambiguo nei confronti della sposa, non la capisce e sembra evitarla.
Solo quando riuscirà a spiegarle ciò che lo turba si rivelerà in un uomo fragile schiacciato anch’egli dalla presenza di Rebecca, e quindi affine per molti versi al personaggio della protagonista.
Hitchcock si manifesta pienamente come il Re del Non Detto, niente è come appare, tutto è un equivoco, tutto può essere travisato: la giovane moglie pensa che il marito sia sempre assorto nel ricordo di Rebecca per amore, invece lui è assorto in preoccupazioni che riguardano le circostanze della morte della moglie, circostanze che, improvvisamente rivelate, porteranno a un’inchiesta in cui Max dovrà difendersi dall’accusa di aver ucciso Rebecca, e ribalteranno situazioni e ruoli dei personaggi. E appunto i rapporti ambigui e misteriosi, che coinvolgono tutti i personaggi, costituiscono l’essenza del film.
Quando finalmente la storia scivola nel giallo, e Max de Winters viene accusato della morte di Rebecca, e c’è un mistero fittissimo da dipanare, il regista può percorrere il binario più familiare del thriller intenso e condurre la vicenda alla spettacolare conclusione.
Mi ha colpita il particolare momento in cui Max, sempre così freddo e sicuro in apparenza, finalmente si confida con la seconda moglie sul passato, e, ormai sospettato della morte di Rebecca, ha quasi un cedimento, tende ad abbandonarsi al destino, pensa non ci sia più nulla da fare, che sarà processato e giustiziato.
Ora la giovane moglie sa cosa passa nell’animo del marito, dissolti gli equivoci e dissipati i misteri che la dividevano da lui, sa di essere molto amata dal consorte, egli le rivela che Rebecca era in realtà una donna arrogante e terribile, e non il modello di perfezione che tutti credevano: e allora la timida ragazza tira fuori forza e grinta e coraggio insospettati; al cedimento psicologico del marito è lei che lo scuote, prende a esaminare la situazione con maggiore lucidità di lui, lo esorta su ciò che è meglio fare per la sua salvezza, e durante il processo sulla morte di Rebecca, resterà costantemente al fianco del marito.
A questo punto i colpi di scena ormai si susseguono in un ritmo incalzante e gli innumerevoli misteri sono del tutto risolti soltanto con la rivelazione finale, che sorprende tutti, persino tutti i protagonisti del film stesso, Max compreso, da film raffinatissimo e sottile quale è.
Non manca la presenza del mascalzone di turno, nella fattispecie interpretato da George Sanders (grande!), che in queste parti si calava in maniera superba e sorniona: e francamente, la presenza di un poco di buono, così come lo sapeva interpretare questo attore, mette allegria.
Hitchcock stesso ebbe a dire che i suoi ‘cattivi’ più riusciti erano quelli interpretati da personaggi simpatici al pubblico.
Aveva ragione il grande Hitch a dire che anche in un film così ci vuole un tocco d’umorismo.
Il film è tratto da un romanzo di Daphne du Maurier e il produttore del film era David O. Selznick, il produttore più prepotente di tutta Hollywood: particolari importanti per la storia di questa pellicola.
Infatti il produttore impose al regista di mantenersi molto fedele al romanzo: Selznick aveva appena prodotto il film più importante della sua vita, “Via col vento” che aveva ricevuto ben dieci premi Oscar e un successo al botteghino unico per l’epoca; per questa ragione riteneva che il pubblico non gradisse che si modificasse la trama di un libro per realizzare un film.
Ma il libro era un classico melodrammone dell’epoca, mentre Hitchcock era il maestro del giallo, del thriller: si sentiva ed era fortemente limitato.
Per evitare la banalità del melodramma ricorse agli espedienti di cui ho già detto più sopra, trasformò ogni dettaglio in una sorgente di suspence, giocò con le memorabili atmosfere, nebbiose e oniriche, sempre cupe, angoscianti ma anche romantiche, con giochi di luce e ombre che dire suggestivi è poco, con la costante presenza dell’acqua (il mare vicino alla casa, la pioggia quasi continua), con i lunghi intensissimi silenzi, con la bellezza delle immagini da stupenda fiaba gotica.