Rebecca Kinzie Bastian, CHARMS FOR FINDING, traduzione di Elisa Biagini, Mimesis Hebenon 2013
Viene da pensare a opere come “Dolcissimo” o “La strana storia di un teschio” del nostro Giuseppe Bonaviri, ma senza il tono di favola, di abbassamento della forza d’impatto dell’orrore che qui, invece, viene mostrato con lucida freddezza.
La scrittura è profondamente turbata da questi oggetti: la vita, in essi scomparsa, non si è tuttavia dileguata nel potere della forma di evocare la fascinazione delle “immagini”, cioè del loro concretissimo “apparire”. Si potrebbe allora pensare a queste poesie come a cartoline inserite nel destino di una non storia, a dirci come quella cosa che chiamiamo vita, sia in realtà un oggetto ontologicamente non indagabile.
Questa nuova “vita” immobilizzata, è una vita che, seppure sia stata, non ha rinunciato a non essere più e si è accasata in un trofeo di carne.
L’innegabile ossessione di questa scrittura finisce così per appellarsi a una forma di immagine bloccata, seppur palpitante: la pittura. In effetti un altro filone di poesie presenti nel libro riguarda la descrizione di quadri i cui soggetti sembrano riprodurre la stessa tragicità dei materiali anatomici e patologici delle teche del museo Mutter. Sono soprattutto opere di Chaim Soutine, ma anche di Egon Schiele, Frida Kahlo, rappresentanti oggetti in stato di scarnificazione o di rigoglio di corpi mortuari, morti già in vita, e dunque già pronti ad uso di museo.
I testi più tragici mi sembrano, però, quelli in cui la natura rigogliosa e trionfante dell’infanzia viene anestetizzata dal desiderio di un futuro museale:
Mamma -
ha fischiato, chiamandomi dai miei appunti -
Quando muoio, voglio essere in quel posto.
Il posto dove mettono le ossa.
Il posto dove mostrano le ossa.
Il posto dove le ossa sono tenute. Così la gente può sapere.
Muoriamo tutti prima o poi.
Beh – dico io – Quando sei vecchio mettilo per iscritto.
Il bimbo stava facendo il bagno, i ginocchi sollevati
dall’acqua. Dita rosee e pulite. Una bolla sprigionava scintille.
No – Ha aspettato e poi di nuovo -
No. Potrebbe far male. Potrebbe
far male quando mi prendono dalle mie ossa.
Anche se sono morto
non potrebbe fare un po’ male?
La poesia, a volte, è capace di sentire una sorte di pietà postuma, non dovuta agli altri che non ci sono più, ma alla lingua, solo quando questa sia capace di accompagnare il nulla che abita le cose indicibili.
Questa è la ricerca della lingua.
Dell’alfabeto della spina dorsale,
della frase sepolta a fondo nell’
ugola e nelle fauci, della spirale
dell’orecchio.
***
Primo sintomo
Voglio. Sollevarti. Tenerti vicino.
Sentire il polso. Vene
esposte. Tendine allungato.
Metto le mani sul vetro e aspetto.
Guizzo seccato. Battito.
Un tamburellare disarmonico.
Nessuna luce sul tuo viso. O sul mio.
Voglio cullarti. Dondolarti.
Sentire le tue ciglia sulla mia spalla.
Disteso. Rivoltato. Sovramorso e ricciolo d’orecchio.
Timbri e corde. Nessuna pelle per avvolgerci.
Bambino. Tu sei tutto. Lingua
barbara. La tua cavità
si apre ampia come le tue braccia.
(Scheletro seccato di un bambino che mostra vene ed arterie, Museo Mutter)
***
Sonetto della tamia
Non distogliere lo sguardo – è lì per te – grazioso,
dischiuso, fiocchi che inghirlandano la strada,
spaccato come una lezione di anatomia,
endocrino, muscolare, scheletrico, corrugato.
Gli intestini fanno un’ansa sul grigio del selciato.
Fermati e chinati per vederlo tutto ardente,
un cinguettio, un guizzo aperto al giorno.
Lo muovi con un bastone – vuoi andare avanti -
Sollevi carne senza pelliccia assurda e blu
Con pezzetti di osso e grasse lucenti calendule.
Come sono intimi la violetta e il melone.
Non ci sono mosche, la giornata è troppo fredda.
Ma voltati, non l’hai ancora visto -
Un puro cuore rosso, che ancora aspetta, perfetto, bagnato.
*
Anche le parole possono essere esauste di noi
Il gatto mi è in grembo, in fasce.
Deve essere sepolta. Dove
è il buco? Nelle mie mani
la perdita, il terreno irregolare.
C’era un’angoscia. C’era la questione
di dove. C’era un ago.
Il ragazzo ha detto “no” e “no”,
un suono che non smetteva. Come un fuso; come una campana.
Di chi era quel pianto mentre guidavamo
a casa? Non io, di sicuro, che ho detto “Adesso”.
Non il mio viso bagnato e colpevole. Non i miei palmi su questo
impianto di raffreddamento.
Ago nella mia gola; punto su uno straccio.
Talvolta ci sono delle punture
quando si prende il miele. Anche
le parole possono essere esauste di noi. Qualche volta
mi taglio le mani sugli accenti, acuti, gravi.