Recensione a basso costo: Un bravo ragazzo, di Javier Gutiérrez
Creato il 05 dicembre 2014 da Mik_94
Ciao
a tutti, amici. Come state? Qui tutto bene. Piove, e io che pensavo
che quest'inverno fosse più mite del precedente, e a breve mi armerò
di pazienza e delle mie gambe e andrò a prende mio fratello in
stazione. Otto dicembre lontano da casa, ma almeno sale lui a farmi
un po' di compagnia. E domani, be', domani si va a vedere Carrisi che
parla del suo ultimo libro. Questo venerdì, prima di augurarvi
ufficialmente buon weekend, vi lascio la recensione di un romanzo –
ristampa recentissima firmata Beat – che è accattivante a dir
poco. Affascinante, originale, matto. Io ve lo consiglio. A presto,
M.
Se
non si sente male, non si soffre. Niente esiste se non ne siamo
consapevoli.
Titolo:
Un bravo ragazzo
Autore:
Javier Gutiérrez
Editore:
Beat Edizioni
Numero
di pagine: 173
Prezzo:
€ 9,00
Sinossi:
È
un pomeriggio d'inverno in una via centrale del quartiere di
Fuencarral a Madrid quando Rubén Polo incontra casualmente Bianca,
amica dei tempi dell'università. Dieci anni sono passati dall'ultima
volta che Polo e Bianca si sono visti, da quella notte in cui un
episodio di incredibile violenza e brutalità ha improvvisamente
sciolto la rock band di cui entrambi facevano parte assieme agli
inseparabili Nacho e Chino e ha messo fine a tutto, alla giovinezza,
alla spensieratezza, alla musica. Quella che inizia come una normale,
magari un po' imbarazzata, conversazione tra vecchi amici - Bianca e
Chino ora sono una coppia, e Nacho... beh, Polo lo ha incontrato
qualche mese prima ed è chiaro che non sta granché bene - si
trasforma per Polo nella certezza che quell'episodio vive ancora
dentro di lui, che niente può resistere a dieci anni di oblio, che
non ci si può sbarazzare del passato come fosse una cicca. Il
passato: gli anni Novanta e la miglior band di Malasaha, un gruppo di
ragazzi uniti dall'ansia di vivere e dalla musica, i cinque dischi da
portarsi su un'isola deserta, da Maxinquaye a Nevermind. Ma il
passato ha anche il suono sinistro di un farmaco, il roipnol, la
droga dello stupro. E le attraenti fattezze di Bianca, che tutti
chiamavano Chicana, corpo tonico, elastico, i capelli nerissimi e la
pelle scura, quasi rossiccia. E di Gabi, la bellissima e biondissima
Gabi dagli occhi chiari, che a quei tempi usciva con un idiota
fascista ma che ora ama e vive con Polo...
La recensione
La
brevità. Che arma a doppio taglio.
Ci
sono romanzi cari e corti, per cui non vale la pena.
Ci
sono romanzi che sarebbero stati forse belli, ma con qualche pagina
in più.
Ci
sono romanzi come questo Un bravo ragazzo che, al contario, non avresti neanche sfiorato se avessero superato qualcosa
come le duecento pagine. Io sono uno di quelli che fa economia, come
si dice. Rapporto il prezzo alla lunghezza del libro, e tendo a
lasciare da parte romanzi ristretti e dispendiosi insieme. Tanti
fanno come me, no? Tanti, in occasione dell'uscita del romanzo di
Javier Gutiérrez, targato Neri Pozza, avranno fantasticato su quel
libricino oscuro e poi ci avranno rinunciato. Centosettanta pagine
erano pochissime per una storia. Centosettanta pagine, nel computer,
ce le ho anch'io, insieme a qualsiasi sognatore che si sveglia col
desiderio della scrittura sul cuscino. Mi augurerei, e davvero, che
in occasione della ristampa, Un bravo ragazzo tornasse
nelle vostre wishlist, ma con un però. Un però da non ignorare.
Dovete essere mentalmente pronti, aperti a non etichettarlo come
“strano” da pagina uno. Perché Gutiérrez è un autore strano,
sì, e scrive un libro strano, ma per la prima volta l'aggettivo non
ha alcuna sfumatura negativa. Lo strano di Un bravo ragazzo
non è e non può essere uno strano brutto. E' un accattivante,
bellissimo, tagliente boh. Voglio convincervi della cosa, ecco perché
la recensione è scritta con la seconda persona plurale. Vi voglio
preparare per bene. E perché, tra l'altro, il romanzo è scritto in
seconda persona, ma in seconda persona singolare. E' tutto un tu, è
tutto un fiume di immagini. Cinematografico, e non nel senso di
adatto ad un film, in futuro. Cinematografico nel senso che tu lo
vedi proprio. Un corto all'avanguardia con riprese curiose, scene
accostate per fare confusione, discorsi diretti senza virgolette che
li introducano, ma inglobati perfettamente in una prosa che va
ovunque ma mai alla deriva. Se fosse un film, sarebbe uno di quei
film montati male. A storia del cinema il mio professore parlava di
montaggio intellettuale, ma io quando guardavo 21 Grammi
non sapevo ancora che quella
tecnica avesse un nome preciso, eppure mi stupivo per l'effetto che
aveva sull'andamento del film e pure su di me. Straniva e ipnotizzava
insieme, possibile? Era la prima volta, con quel film, che dovevo
fare uno sforzo in prima persona. Da spettatore passivo, a
costruttore di casette di Lego e puzzle. Il regista ci dava i pezzi,
nascondeva la scatola con il disegno complessivo, noi costruivamo, da
bravi. Un bravo ragazzo
lo costruisci e non sai cosa ne verrà fuori, finchè lo schema si
completa e ti accorgi che il titolo ti ha preso in giro, che sei
stato in compagnia di un Lucignolo incravattato che, dal suo Paese
dei Balocchi negli anni novanta, non è cambiato. Non ci sono punti e
a capo. Ci sono pagine che sono tutte una sfilza di virgole, altre
che invece i punti ce li hanno eccome, ma non ti portano a capo bensì direttamente altrove. Punto e cambia una scena. Un altro punto e
ritorni. Sballottato avanti e indietro, come in una partita di
tennis.
Ma di cui tu sei la sfortunata pallina, percossa da un lato e
percossa dall'alto, tra gli ansimi sgraziati e tutto quel sudore.
Sembra un testo rap, quasi. Ininterrotto, lunghissimo, per leggerlo a
voce alta che fiato ci vuole? La base, però, è puro, duro rock. La
brevità è tutto. Gutiérrez ha i tempi giusti, uno stile pazzesco e
musicale; sa quando verrebbe a noia e fino a quando, al contrario,
può incuriosirti. E' padrone dei suoi protagonisti e delle regole
del gioco. Loro, con le loro colpe e i loro sporchi amori, con
l'amoralità e la musica, con il culto del 1997 e del brivido del
palcoscenico, non sfuggono al mirino della sua telecamera. Una spia
rossa li segue e li ossessiona. La resa delle immagini è originale
come il resto, assurda il giusto. Importa più lo scorrere vivido
delle scene che lo scalpore che la storia vorrebbe suscitare,
anche se tutto è grossomodo già scritto. Ma quella scrittura
scombinata confonde fino alla fine, dandoti sensazioni psicofisiche -
delirio di onnipotenza, ebbrezza, estasi artificiale – a te che non
fumi le sigarette, figuriamoci le canne, figuriamoci di peggio. Le
strade di una città grande ma che poi tanto grande non è.
Incontrarsi e scoperchiare, a colpi di chiacchiere, caffè e come ti
va la vita?, vasi di Pandora spaventosi. Guardarsi allo specchio e
avere voglia di impiccarci con quella cravata, che è l'attaccamento
a un lavoro che ci fa schifo da sempre. Guardare la donna che dorme
con noi e pensare che quando è sveglia non sappiamo più come
rapportarci con lei. La lingua che, quando meno te lo aspetti, torna
a battere su quel dente che prima non ti faceva male e ora sì. Una
storia di violenza carnale che ispirerebbe le più illuminate teorie
freudiane. L'incoscienza dell'irreprensibile Rubén, la voglia matta
di tuffarti a bomba nei suoi abissi di squallida passione e carne,
per vedere fino a dove può arrivare lui e fino a dove puoi arrivare
tu. Un dolore che si risveglia a scoppio ritardo, nel bosco delle
belle addormentate con il roipnol.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Nirvana – Smells Like Teen Spirit
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