Ripubblico la recensione scritta dopo la presentazione del film allo scorso festival di Cannes. In sala da giovedì 6 febbraio.A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis, di Joel e Ethan Coen. Con Oscar Isaac, Carey Mulligan, John Goodman, Garrett Hedlund, Justin Timberlake.
Per vederlo mi sono fatto prima una coda di 50 minuti sotto la pioggia: respinto (come centinaia di altri giornalisti). Poi, alla seconda proiezione, una fila di due ore e dieci minuti, alle prese con una sicurezza alquanto rude. Quando finalmente ce l’ho fatta a vedere Inside Lelwyn Davis son rimasto abbastanza deluso. Per carità, è pur sempre un Coen-movie, intelligente, divertente, benissimo scritto e girato. Ma non è quella ricostruzione dell’epopea dei folksinger anni ’50-’60 che le note di produzione lasciavano intendere. Sì, il Greenwich c’è, la musica anche. Ma ai Coen importa altro, importa mettere a punto un ennesimo personaggio di perdente, bersagliato dagli uomini e fors’anche da Dio. Che è un’altra cosa rispetto a quanto ci era stato detto. Voto 6 e mezzo
Era uno dei film più attesi di questo Cannes. Così atteso che ieri, sabato 18, alle proiezioni stampa è successo di tutto, code infinite, spintoni, urla, tentate ribellioni contro gli inflessibile buttadentro delle sale, ma più buttafuori. Per quanto mi riguarda: mi sono fatto cinquanta minuti di attesa sotto la pioggia battente per il primo press screening alla famigerata Salle Debussy nel tardo pomeriggio (famigerata perché di capienza insufficiente), con il risultato che allo scoccare dell’inizio della proiezione è stato dato lo stop, basta, non si entrava, non c’era più posto. Centinaia di giornalisti inferociti respinti. Siccome la proiezione seguente era alla 22 alla ancora più famigerata e piccola Salle Bazin, oltretutto protetta della security più dura e rigida del festival, per non perdermi di nuovo Inside Llewyn Davis mi sono messo in fila alle 19,50, cioè due ore e dieci minuti prima. Dopo un’ora di attesa i signori della securitate ci fanno alzare tutti (ci eravamo messi a terra a lavorare di computer per occupare utilmente l’attesa) ordinandoci con modi rudi assai di sgombrare lo spazio e di arretrare. Peccato che dietro si fosse nel frattempo formata una fila enorme, sicché noi, che ci eravamo accampati lì ore prima, saremmo finiti in coda a loro perdendo ogni chance di entrare. A quel punto è scoppiata la quasi-rivolta. “Da qui non ci muoviamo, on reste ici!”. Urla e insulti irriferibili in tutte le lingue del mondo, minacce di sfondare i cordoni e quant’altro. Finché si è addivenuti all’accordo: si sarebbe rimasti al posto meritatamente e faticosamente conquistato senza perdere, come dicono le centraliniste automatiche dei call center, la priorità acquisita. Ecco, poi dicono beati voi che siete a Cannes e chissà come vi divertite. Devo dire che anche l’anno scorso non era stata una passeggiata, ma quest’anno va anche peggio, con code ancora più lunghe, attese ancora più estenuanti, e ancora più pioggia che nel 2012. Dopo tutto ‘sto casino uno finalmente entra e si vede Inside llewyn Davis, e ci rimane un filo male. Non che sia brutto, per carità. I Coen non potrebbero fare un film brutto nenche se ci si mettessero d’impegno. Solo che non è quello che ci si aspettava e che le sinossi ci avevano raccontato, ed è invece un Coen-movie sul solito sfigato, sul solito loser, come i due ne hanno già fatti decine. Nelle molto colte e dettagliate note di presentazione ci avevano avvertito che si trattava della ricostruzione di una fase storica della pop culture americana e della sua musica: l’epopea dei folk singer che tra fine anni Cinquanta e primissimi Sessanta rivoluzionarono il suono americano con la voce e la chitarra. Non Peter, Paul & Mary e nemmeno il Bob Dylan che sarebbe venuto subito dopo, ma coloro che occuparono lo spazio in mezzo. Così suggeriscono le note evidentemente ispirate dagli stessi Coen, e a me, che musicologo non sono nè tantomeno filologo di quella fase, mi paiono distinizioni anche troppo sottili e un filino capziose. Dunque: il protagonista di questo film si ispirerebbe a Dave Van Ronk, pioniere di un nuovo genere sfortunato e malcompreso, e i semi gettati da lui al Greenwych Village avrebbero poi fatto la fortuna di altri. Si ispirerebbe, perché il personaggio ha per nome Llewyn Davis, compone, suona e canta musica che pochi apprezzano e gran parte del pubblico e dei produttori musicali rifiuta. Non ha un dollaro, dorme sui divani di quei pochi che ancora accettano di ospitarlo. Mike, con cui aveva formato un duo di una qualche modesta notorietà, si è suicidato gettandosi da un ponte e adesso Llewyn (nome gaelico) è solo. Ci sarebbe una ragazza, ma da quando l’ha messa incinta lei non vuole più vederlo, non lo sopporta più, lo butta fuori di casa, vuol solo che lui le dia i soldi per abortire (la interpreta una livida Carey Mulligan al limite della megera). Solo che poi il film dal Village devia da un’altra parte, anzi verso molte e troppe e troppo confuse direzioni. Non che manchi la musica, anzi, e alcuni numeri sono divertenti e perfino meravigliosi. Solo che a mio parere non è quello il centro di gravità del film, il centro è Llewyn Davis, non in quanto folksinger, ma in quanto folksinger incompreso, dunque sfigato, dunque perdente perdentissimo. Un altro uomo alla deriva e bersagliato dai dardi della sorte come ne abbiamo incontrati tanti nella filmografia dei Coen, ad esempio abbastanza recentemente in A Serious Man, che però era assai meglio di questo. Il film è pieno di deviazioni, anche abbastanza incongrue, di subplot, di personaggi collaterali: tutto molto ben orchestrato, tutto molto ben girato, tutto molto intelligente-divertente alla maniera Coen, solo che è un’altra cosa da quanto ci era stato detto e promesso, ecco. Sì, si ride parecchio alle scene con il discografico spilorcio di Llewyn e la sua ineffabile vecchia segretaria. Ci si diverte alla storia del gatto perso, ritrovato e di nuovo perso e di nuovo ritrovato. Il viaggio verso Chicago è l’occasione per John Goodman di mettere a segno una delle sue ormai seriali strepitose caratterizzazioni, un vecchio, massiccio appassionato di jazz dai molti vizi privati, di una laidezza e di un cinismo alla Orson Welles ultima maniera e ultima fase. Per non parlare del suo autista, apparentemente opaco e decerebrato, che si rivelerà poi essere un attore della scena underground newyorkese senza lavoro dopo che la polizia ha chiuso il teatro per oscenità (di un testo di Orlovsky). Un cameo in cui Garrett Hedlund conferma di essere uno dei talenti maggiori sui trent’anni, e fors’anche l’uomo più sexy apparso a Hollywood dopo Brad Pitt (prendano nota le groupies di Ryan Gosling). Insomma, i Coen, al contrario delle loro dichiarazioni programmatiche, non vanno mica tanto a fondo nella scena del Village di quegli anni cui forse sono poco interessati e preferiscono al solito una narrazione ondivaga, oscillante, decostruita e destrutturata, dove rispetto all’asse principale contano i singoli quadri e ritratti, i frammenti isolati, le piccole grandi esplosioni di follia e surrealtà. Tutto molto coeniano, certo, anche molto godibile: si sorride e si ride, ma è il solito esercizio autoreferenziale e ombelicale dei due talentuosissimi fratelli. Alla fine sul palco del Gaslight, così si chiama il club cantinaro in cui si esibiscono i nuovi in cerca di fama, sale un tizio di cui vediamo solo l’ombra scontornata. I capelli sembran quelli di Bob Dylan, la boce raspata e nasale pure. E Llewyn Davis? Resta ad ascoltare e forse capisce che con quello lì non ce ne sarà più per nessuno. Finale brillantissimo di un film più furbo che bello. Dettaglio: il tenutario del club si chiama Pappi Corsicato, come il regista napoletano. Non credo sia un caso, immagino che sia un omaggio dei Coen al Pappi di Libera e del recento Il volto di un’altra. Chi ne sa di più, faccia sapere, grazie.
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Recensione: A PROPOSITO DI DAVIS dei fratelli Coen (una parziale delusione)
Creato il 04 febbraio 2014 da LuigilocatelliPotrebbero interessarti anche :
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