Recensione: ADIEU AU LANGAGE. Godard è Godard è Godard (in 3D)

Creato il 20 novembre 2014 da Luigilocatelli

Adieu au langage – Addio al linguaggio, un film di Jean-Luc Godard. Con Héloise Godet, Kamel Abdelli, Richard Chevallier, Jessica Erickson.
La cosa migliore è il 3D, genialmente usato da Godard per inventare, enfatizzare, intensificare, distorcere visioni e immagini. Corpi che acquistano un che di irreale e fluttuante, cose e paesaggi fantasmatici. Il gran maestro che ha reinventato il cinema ha ancora un occhio formidabile. Anche se replica e ripropone i suoi tic e tabù e viziacci ideologici, la tendenza alla concione, lo sfrenato namedropping, la smania citazionista. Con una (abbastanza sorprendente) conversione alla cinofilia. Niente voti (come si fa a dare un voto a Godard?)
Ma il grande maestro si diverte, è impazzito, vuole prenderci per il culo, sabota ancora una volta le convenzioni del cinema come ha sempre fatto, punta al muoia sansone-cinema con tutti i filistei? Che poi i filistei saremmo noi, spettatori attenti e casuali, addetti ai lavori e non, critici e critichini e critichesse, e chiunque abbia a che fare in vari modi con quella cosa chiamata cinema.
Tutte le risposte sono possibili, ognuno metta la croce là dove vuole. Pur da adepto del culto Godard da tempi immemorabili, devo ammettere che questo suo Adieu au language mi ha messo addosso un certo disagio, almeno la prima volta che l’ho visto (ovverossia lo scorso maggio a Cannes dov’era in concorso e dove poi avrebbe vinto il premio per la regia: ex aequo con Xavier Dolan!). Disagio mitigato alla seconda visione all’anteprima stampa milanese la scorsa settimana, dove Adieu au language mi è sembrato più malinconico che provocatorio, e sorprendente per la inesausta fame di avanguardismi mostrata da JLC, per la sua curiosità di sperimentare, più che di oltraggiare. A 84 anni Godard ha filmato e firmato mettendo un adieu assai allusivo nel titolo, non è andato alla prima a Cannes, con l’effetto di aumentare esponenzialmente attraverso l’assenza la propria leggenda e la propria presenza colonizzatrice ed egemone nelle menti dei suoi fedeli. Tant’è che quel giorno al Grand Théatre Lumière una folla sterminata, e non si esagera, premeve alle varie entrate. In una calca mai vista sulla Croisette che pareva quella dei fedeli di Medjugorie in attesa dell’apparizione della Madonna. Eravamo oltre i confini della ragione, nel territorio della fede. Godard è una fede. Ma conta la visione di un film per i devoti? La fede ne prescinde, segue propri percorsi disgiunti dal reale e dalla verifica dei fatti. Cerchiamo intanto di restituire qualcosa di questo film-non film. Godard riusa il 3D, dopo averci provato la prima volta nel 2013 in un film a episodi (solo uno era suo) presentato sempre a Cannes, ma all’indipendente Semaine de la critique. Lo usa in tutta evidenza divertendosi, voglioso di provare il giocattolo come un bambino alle prese con i suoi robottini, forse con qualche imperizia tecnica che diventa surplus espressivo nelle sue mani (in un paio di inquadrature si sovrappongono i vari personaggi e i tuoi occhi non san più dove andare, sicché per vederci qualcosa devi chiudere ora uno ora l’altro occhio). Certo che non s’è mai visto un 3D come queso usato per sbatterti in faccia piedi pelosi, musi di cani, arbusti boschivi che sembrano trafiggerti la faccia, vari corpi contundenti, e nasi, mani, bocche, culi, fiche. Tutto ingigantito, allungato, sovra dimensionato, in una deformazione, soprattutto se applicata ai corpi, un filo pornografica e indecente. La storia? Ma vi par possibile che in Godard ce ne sia una? Certo che no, lui destruttura e decostruisce fin dagli anni sessanta ogni possibile narrazione, trattando il cinema raccontato come i terroristi trattano i loro obiettivi, usando la armi più distruttive, bombe comprese. Certo, signora mia, in molti momenti sembra che il nostro adorato Jean-Luc sia rimasto fermo al 1970. Le solite voci fuori campo che sentenziano sul vuoto o sul tutto, o su entrambi, sputando parole e parole ora triviali ora finto-sublimi ora sublimi davvero, di volta in volta create ad hoc, improvvisate dagli interpreti o prese di peso da qualche tomo, meglio se firmato da qualcuno che conta (nei credits finali c’è la lista completa degli autori citati, d’altra parte si sa che JLC è malato di namedropping altolocato). In alternativa, scritte che attraversano lo schermo a concionare, predicare, sentenziare. Che son cose che il caro Jean-Luc faceva già uguale-uguale ai tempi di La Chinoise, e son passati 45 anni, mica niente. Il film parrrebbe raccontare di una coppia che si incontra e subito casca nelle complicazioni. Parrebbe, perché le interpolazioni e le digressioni anche con altri personaggi sono molte. E parrebbe diviso in due parti, la prima titolata Natura, la seconda Metafora. Ci sono questo tizio e questa tizia che si parlano, un po’ si detestano, spesso scopano (lei però pare abbia avuto una storia con uno - un africano forse? – incontrato sull’ansa del fiume Congo a Kinshasa, e non ho capito se i piedi ingigantiti dal 3D che a un certo punto si vedono son i suoi o quelli del regolare amante, mah). Sono spesso nudi, lui si siede sul water e i rumori che sentiamo ci dicono inconfondibilmente che l’evacuazione sta avvenendo con successo e soddisfazione . “Non dipingere quel che si vede, perché non si vede niente, ma dipingi quel che non si vede” (Monet). “È possibile produrre un concetto d’Africa?”, “Non c’è nudità nella natura” son solo alcune delle frasi che ci vengono magniloquentemente servite. Appaiono le immagini del Mabuse di Lang. Si cita il pensatore di Rodin. Si fa risalire l’hitlerismo a Machiavelli, Richelieu e Bismarck, in una lezioncina abbastanza vergognosamente semplificata che denuncia nell’autore più il pregiudizio che lo studio accurato e spassionato dei fatti e delle cose. Si ricorda il sangue dei tempi del Terrore, ma anche il buono che quella stagione produsse (dal calendario ai diritti umani). Esterni di una usine, come in un Godard barricadiero degli anni caldi, e come colonna sonora iniziale e finale addirittura una canzone di Lotta Continua, e quasi non ci si crede. Però, il signor Godard il suo occhio infallibile mostra di averlo ancora e ci regala immagini qua e là folgoranti, che ci fanno sopportare tutto il resto. Quel bateau sul lago di Ginevra, quell’interno di una stanza che apre su un esterno naturale e misterioso, quei fiori trasformati dal 3D in una fantastica creatura di altri mondi, quelle strade battute dalla pioggia che si translucidano in pura visione. Stringe abbastanza il cuore il discorso cinofilo, un po’ senile: “I cani sono più affidabili degli uomini”, “No, niente figli, prendiamoci un cane”. E difatti un cane, che pare sia proprio quello del regista-guru, diventa il terzo protagonista del film, ripreso e seguito con infinito amore da un Godard convertito al dudùismo. C’è molto da buttare in Adieu au langage, ma moltissimo da tenersi stretti. Film da vedere e riconsiderare come pura visione, come flusso di immagini. Prendere le parole e i deliri verbali come tappeto sonoro, nient’altro. Però no, non prendiamo sul serio quanto G. proclama, non trasformiamo ogni suo sberleffo, anche cinico, anche perfido, in chissà quale ulteriore sfondamento di chissà quale confine di cinema. Vediamolo, questo film, laicamente, e non con lo sguardo estatico del fedele o dell’innamorato perso. (E comunque l’attrice protagonista, con quell’ovale alla Anna Karina o Anne Wiazemski, è solo una pallida replica degli originali, e si pensa a quei vecchi amanti che ricercano sempre la stessa donna della gioventù). Alla seconda visione, a distanza di mesi dalla prima, il mio giudizio si è addolcito, m’è sembrato di notare una nota di sincero, dolente strazio che a Cannes non avevo colto.


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