Quando va nei teatri di guerra con i suoi Navy Seals American Sniper acquista in spessore e densità, assumendo un respiro ampio e un epos che riecheggia molti classici del cinema bellico. Il soldato-eroe che non sbaglia mai e sembra impermeabile ai colpi del nemico (tratto dell’eroe è la sua intangibilità). La solidarietà e complicità virile tra commilitoni. Gli scherzacci e gli sfottò pesanti ma maschilmente affettuosi tra compagni di squadra. Gli amici persi in battaglia. Le missioni impossibili eppure vittoriose. L’impossibilità di spiegare cosa sia la guerra a chi se ne sta a casa. Cui si aggiunge qui lo specifico dei nuovi conflitti in area islamica, e dunque le azioni arrischiate in un mondo altro dove chiunque, anche le donne, anche i bambini, può rivelarsi un nemico letale. Le perlustrazioni casa per casa e la minaccia sempre incombente e come trasudanta da ogni pietra. Lo stress della guerra asimmetrica, del combattere un avversario che può nascondersi dapppertutto e che non riesci a identificare mai con certezza. Le imboscate. Gli attentati kamikaze. Le esecuzioni spietate dei presunti collaborazionisti. Di postmoderno e di contemporaneo rispetto, per dire, a John Wayne e altri american heroes del cinema passato, è il carico di tensione che si accumula man mano in Kylie, quel peso sordo dalle parti del cuore e delle viscere, è il trafficare durante le pause americane tra un turno e l’altro in Iraq con gli psicologhi e i medici che parlano di Posttraumatic Stress Disorder. Ecco, John Wayne. Qualcuno ha già infamato American Snider parlandone come del Berretti verdi della nuova era di guerre imperiali, e solo la presenza alla regia di un autore venerato a sinistra come Eastwood ne ha impedito finora la completa demonizzazione. Ripeto, a me l’evidente patriottismo non ha infastidito. Ai limiti del film di cui ho già detto aggiungerei che anche le parti di guerra, il nerbo vero della narrazione, sono di molto inferiori a quelle di un film analogo come The Hurt Locker, dove Kathryn Bigleow – anche grazie a una sceneggiatura migliore – sapeva rendere con più intensità e stile il senso di costante minaccia che attanagliava i suoi americani dislocati dalle parti di Baghdad. Si ha l’impressione, anche nelle scene di guerra, di un Eastwood dalla mano non più così sicura. Restano intatte la sua sobrietà, l’assoluta mancanza di retorica e corrività sentimentale, ma la sua ben nota sveltezza nel girare qui rischia di diventare approssimazione, se non proprio sciatteria, che è una brutta parola che lui non si merita. La vera debolezza di American Sniper non sta nell’inneggiare alla bandiera, ma nelle esitazioni del tutto impreviste della regia. Ho letto commenti malevoli sulla performance di Bradley Cooper, temo che chi li ha detti e scritti abbia confuso il personaggio (così semplice nella sua elementare umanità da sembrare ottuso e bovino) con l’interprete. Credo invece che Cooper dia prova qui di essere un attore vero, spogliandosi di ogni glamour da bellone, proletarizzandosi d’aspetto, ingrossandosi di una ventina di chili, levandosi ogni barbetta hipster-tirabaci. Diventando in una immedesimazione abbastanza impressionante il texano pezzo-di-carne che ha da essere. Tant’è che io lo includerei nella cinquina dei nominati all’Oscar, altro che Benedict Cumberbatch. Sienna Miller in versione bruna è davvero brava nonostante la petulanza del suo personaggio, ed è quasi irriconoscibile per chi come me se la ricordava bionda (è la sua seconda performance notevole di quest’anno, dopo quella in Foxcatcher, presentato il maggio scorso a Cannes e non ancora uscito da noi). Faccio una domanda a inviati di guerra in Iraq e esperti vari del ramo conflitti in territori islamici: ma è credibile che l’implacabile cecchino arabo (per la precisione siriano) che vediamo nel film prima installato a Falluja, area notoriamente sunnita, rispunti poi a Sadr City, il megaquartiere sciita di Baghdad? Com’è possibile che un sunnita vada a combattere tra gli sciiti, visto che le due etnie in Iraq, e non solo lì, sono fiere avversarie per non dire peggio? A proposito: gli arabi di American Sniper sono rappresentati secondo i più logori cliché, occhi di brace, linguaggio del corpo e dei gesti survoltato, fanatismo esagitato. Era proprio il caso? Anche al nemico bisogna saper dare tratti umani. Ovviamente non si è girato in Iraq, e come si sarebbe potuto? Gli esterni son tutti in Matrocco, che finge bene di essere di volta in volta Falluja, Ramadi e Sadr City-Baghdad. Anche Ridley Scott per la Somalia di Black Hawk Down era andato a suo tempo in Marocco a girare, ormai – temo – l’unico paese con minareti e scritte in arabo dove una troupe americana possa ancora lavorare in tranquillità.
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