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Recensione: And I’ll Scratch Yours – Peter Gabriel AA. VV

Creato il 22 gennaio 2014 da Visionnaire @escrivere

 Recensione: And I’ll Scratch Yours – Peter Gabriel AA. VV

ARTISTA: Peter Gabriel & AA.VV.
ALBUM: And I’ll scratch yours
ANNO: 2013
ETICHETTA: Real World
TRACCE: 12
DURATA: 54:45

Con questo disco si chiude, a distanza di qualche anno, il progetto di Peter Gabriel che in origine doveva uscire in doppio cd e unica data.
“Scratch my back”, album di cover di artisti vari interpretate da Gabriel, doveva essere il primo cd, seguito da questo “And I’ll scratch yours”, dove gli artisti “coverizzati” rendevano il favore interpretando canzoni di Gabriel. Il concetto è letteralmente “Ti gratto la schiena, poi tu la gratti a me”, unico nel suo genere, non è però riuscito a livello di tempistica. Infatti, come spiegato anche nel booklet, il lavoro di cesello che sta dietro a una canzone non sempre riesce a seguire i tempi rigidi delle uscite discografiche. L’ispirazione non è a comando, grazie al cielo. Tanto più quando ti confronti con quello che, senza sviolinate o esagerazioni, è considerato un mostro sacro, un artista che ha contribuito a disegnare la mappa della musica pop, new age e world music. Bisogna pensarci bene prima di reinterpretare brani che sono entrati di prepotenza nelle orecchie di tanti, di mettere mano a suoni e armonie ormai inevitabilmente incastonati nell’immaginario di una bella fetta di mondo. L’esito di un tale lavoro ha ben poche strade da seguire. O ti ritrovi fra le mani il capolavoro, oppure un misero tentativo che presto finirà dimenticato a prendere polvere in qualche scaffale.
Il primo ascolto, che di solito è quello più importante (un po’ come si giudicano le persone, a pelle), è stato a tutti gli effetti disastroso. Ho sentito il bisogno di saltare le tracce dopo due minuti, non ho sopportato la cancellazione di tutti i riferimenti conosciuti. E dire che il nuovo mi piace. Ok, torno a fare “play” intenzionato a non pensare troppo agli originali e per fortuna, in mezzo al buio apparente, ho intravisto un appiglio, una cordicella sottile alla quale ho deciso di attaccarmi. La cordicella che ho trovato è forse il filo conduttore che unisce tutte queste idee e tutti questi artisti. Tra le due soluzioni che avevo previsto per questo lavoro ne spunta una terza, ma è impegnativa: bisogna snocciolare i brani uno a uno.

E allora ecco la prima traccia, “I don’t remember” di David Byrne. Non a caso messa per prima e di sicuro appeal risulta essere la punta di diamante, o l’ariete di sfondamento, di tutto il cd. Byrne ha confezionato questo stravolgimento rendendo il pezzo ballabile, brillante, alternativo e pop allo stesso tempo. Alla sua età dimostra di avere ancora tutta la lucidità del passato, anzi, più lucidità di tante nuove leve. Il brano obbliga a battere il piede anche ai mobili di casa, col suo basso potente e sintetizzato. Suona tutto Byrne, chitarre, tastiere, programmazioni… sono convinto che riuscirebbe a contestualizzare in un bel brano anche l’allarme delle cinture di sicurezza non allacciate. Poi la sua voce e i suoi cori scomposti e sbarazzini sono il giusto ingrediente che lega tutto quanto.

Si passa a “Come talk to me” che, nella versione di Bon Iver, perde tutto l’interessante intreccio ritmico dell’originale, per lasciare posto agli strumenti a corda amalgamati in modo superbo. Versione molto più riflessiva e lenta. Presa a piccole dosi, la voce riverberata di Bon Iver non stanca e mimetizza in parte la mancanza di ritmo, che arriva solo sul finale.

È il turno di “Blood of Eden”, a mio parere l’esercizio più riuscito. Regina Spektor, con la sua voce leggiadra e un arrangiamento elementare, riesce a fare di questo capolavoro una cosa nuova, dove l’ombra di Gabriel finalmente scompare. Il pezzo, che in originale è stracolmo di suoni e di parti, acquista una nuova leggerezza. Pianoforte, batteria e basso sono la struttura portante e appena sussurrata. È una di quelle canzoni che si vorrebbe non finissero mai, dove le parti si susseguono lasciando sempre fame di un’altra strofa.

“Not one of us” rielaborata da Stephen Merritt, che rispolvera tutta una serie di aggeggi anni ottanta, dai sintetizzatori ai vocoder e alle drum machine, per scoprire che funzionano ancora alla grande! Incredibile come il pezzo ti riporti indietro di venticinque anni, con tutti gli stilemi del caso.

“Shock the Monkey” di Joseph Arthur, unico artista insieme a Feist che non fa parte del capitolo primo del progetto, ripropone il brano in versione scarna: chitarra effettata, basso e voce. Non brilla particolarmente, si salva grazie all’armonia forte del ritornello che richiama l’originale. Una versione comunque molto intensa e sentita.

Arriva Randy Newman con “Big Time”. Questa è forse la “decostruzione” più riuscita, nel senso che il brano non ha conservato niente della verve e del ritmo originali. Persi tutti i riferimenti e i suoni degli ultimi anni ottanta, il brano indossa una nuova veste vagamente jazz, sbilenca e rilassata. Complice soprattutto il piglio della voce. Divertente e interessante, ma niente di trascendentale.

Gli Arcade Fire invece hanno preso “Games Without Frontiers”, l’hanno risuonata uguale all’originale e la cosa bella è che sembra un pezzo loro. L’effetto fotocopia è impressionante, a dispetto della poca fantasia bisogna dire che il brano calza a pennello alla band e acquista nuovo vigore.

Gli Elbow riprendono una delle melodie più forti di Gabriel, “Mercy Street”. Anche loro utilizzano l’approccio dell’autore, più precisamente della versione con orchestra contenuta in “New Blood”. La voce del cantante sembra addirittura quella di Gabriel. Hanno rischiato poco, ma hanno comunque dato un valore aggiunto come arrangiamenti di chitarre e atmosfera in generale. Poi il pezzo è talmente bello che è sempre un piacere ascoltarlo fino all’ultimo secondo. Ipnotizzante e avvolgente.

Brian Eno non poteva non farsi notare; infatti ha preso tutto il capitale armonico e melodico di “Mother of violence” e l’ha ridisegnato in maniera caotica e cacofonica. Ho trovato difficoltoso cercare un senso a questa rivisitazione che non sia quello dei suoni, sempre ricercati e dosati sapientemente.

“Don’t give up” è uno dei brani più belli e conosciuti di Gabriel. Lo sporco lavoro l’ha dovuto fare Leslie Feist, e non ha sicuramente brillato. Si sente una chiara ispirazione al sound di Bjork, il brano suona “freddo”. Ci sono intrecci di conga e bassi elettronici molto invadenti, suoni elettronici e archi sintetizzati lo-fi provenienti dai primordi della musica elettronica. Anche la voce bellissima ricorda molto l’artista islandese. Le parti Gabriel-Bush sono invertite con Feist-Timber Timbre, cioè i sessi delle due voci sono invertite sul testo, esperimento discutibile riguardo alla resa del significato. Rimane comunque un buon pezzo, con spunti interessanti. Poi, Feist ha la geniale capacità di inserire archi orientali in un contesto del tutto estraneo, cosa che non ti aspetteresti mai ma che suona molto bene.

Tocca poi al compianto Lou Reed, che ha deciso di rifare il classico “Solsbury Hill”. Il risultato equivale a prendere una preziosissima scultura in legno, liscia e perfetta in ogni particolare, e passarle sopra una carta abrasiva a grana grossa. Decisamente caustico. Tutto il buonismo dei suoni pacchiani, la bella architettura degli archi, tutta la melodia positiva in tonalità maggiore vengono passate nel tritacarne della chitarra distorta di Reed e di una percussione rudimentale. Non contento, il nostro rende anche il cantato una specie di lamento ironico. Come accennato sul booklet, prendi un elegante ed esclusivo quartiere londinese e lo porti nell’East Side newyorkese. L’insieme è abbastanza noioso e inconcludente, ma credo che in questo caso vada premiato il concetto. Cosa altro poteva diventare “Solsbury Hill” filtrata da un’anima coraggiosa che non ha mai lasciato spazio a compromessi?

Chiude il tutto Paul Simon con una versione di “Biko” molto corale e distensiva. Chitarre avvolgenti, bei cori, un arrangiamento a metà tra il cantautorato e la World Music. Bella ma innocua, adatta per chiudere col sorriso, ma spoglia di tutto quello che di affilato contiene la versione originale.

Alla fine del viaggio posso tirare le somme. Parlando di cover, il risultato non mi soddisfa affatto. A parte due episodi molto riusciti, Byrne e Regina Spektor, le altre canzoni non hanno raggiunto quella voce in più, quel valore aggiunto che nasce a volte dallo scambio di idee.
Eppure questo disco è rimasto tanto nel mio lettore, e ci entra ancora spesso.
Sfoglio il booklet; la copertina è il solito ingrandimento fatto al microscopio che tanto piace a Gabriel. Dalle note interne deduco si tratti di un capello e di un frammento di impronta digitale, questa volta. Penso che Gabriel sia attratto da un pensiero: più cresci e più devi guardare le cose da vicino. Il segreto è proprio davanti ai tuoi occhi. Ogni pagina contiene un particolare ingrandito dell’artista che ha rifatto la canzone. Sono particolari di dita, falangi e occhi. La foto di Lou Reed è sfocata, quasi una premonizione. E’ una bella idea, come a sottolineare che il lavoro fatto da ogni artista è strettamente personale, soggettivo, unico. Come le impronte digitali, il taglio degli occhi, le cornee. Ognuno ha la sua visione delle cose, il suo modo di maneggiare oggetti, strumenti musicali, di distinguere luci, ombre e colori. Ognuno lascia i suoi segni. Ecco, forse è questa cosa che mi fa apprezzare il disco. Il fatto che, oltre alle canzoni di Gabriel, ci sia tutto un mondo di suoni, di idee e di esperienze diverse. Il vero scambio presente in questo progetto è stato il dimostrare come le canzoni possano invecchiare, cambiare forma e suoni, ma rimanere comunque vive e capaci di generare emozioni e pensieri. Una materia pulsante e intelligente, un linguaggio universale.
Oltre a tutto questo, e oltre al fatto di avere tra le mani una collezione di suoni che spazia su almeno tre decenni, c’è da aggiungere che progetti del genere sono utili anche per conoscere artisti nuovi. Chi non ha mai ascoltato uno dei talenti presenti sul disco, o chi non ha mai approfondito l’ascolto di Peter Gabriel, si troverà comunque soddisfatto.

VOTO: 3,5 / 5

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    jonfen

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