Autore: Sciltian Gastaldi
Editore: lulu.com
ISBN: 9780980926200
Num. Pagine: 264
Prezzo: 16,00€
Voto:
Trama:
Francesco ed Emanuele sono due ragazzi come tanti. Studiano, vanno al cinema, ascoltano musica, scrivono e-mail. E amano. Si amano. Con un’intensità tale da essere come angeli da un’ala soltanto: possono volare solo abbracciati. I due, adolescenti e omosessuali, maturano insieme la loro romantica crescita sentimentale, fra i timori della rottura delle convenzioni e la passione totalizzante del primo amore. Romanzo di formazione, tratta argomenti d’attualità affrontando esplicitamente temi centrali per gli adolescenti d’ogni epoca e d’ogni identità sessuale: la capacità d’amare e di amarsi, il coraggio delle scelte, il rispetto dei sogni propri e altrui.
Recensione:
Un tripudio di lagne, infantilismo e stucchevolezza.
Ci ho provato, ho provato davvero ad apprezzare questo libro, anche perché consigliato da una cara amica che mi aveva anticipato che fino a metà non era nulla di eccezionale, ma che poi avrebbe ingranato.
Io sono una che non ha mai abbandonato una lettura, pertanto ho continuato imperterrita ignorando quel che cercava di suggerirmi il buonsenso e ho confidato nella storia, sperando che si risollevasse come pronosticato.
Non è successo. Anzi, non solo non è successo, ma la seconda parte si è rivelata ancora più melensa e noiosa della prima. Il che è dire tanto.
Innanzitutto i due protagonisti – Lele e Chicco – sono adolescenti sulla via dei diciotto anni, e non sui quindici o sedici, e ci tengo a specificare questo punto perché la differenza c’è, eccome.
Nei primi anni dell’adolescenza se ci si strugge in un amore ridondante, totalizzante e che condiziona le giornate è un conto, perché si tratta di essere ragazzini la cui emotività si sta sviluppando, si stanno facendo esperienze, si sta prendendo coscienza di se stessi, degli altri, si è facilmente preda dei sentimenti puri e ancora non limati dalle consapevolezze e dalle piccole delusioni; si tratta quindi di una sorta di immaturità potente che fa sentire in alto mare, sulla scia delle scoperte che possono indirizzare una vita intera.
Quando invece si parla di diciottenni – quando si è quindi nel periodo di transizione tra adolescenza ed età adulta – è il caso di prenderla un po’ più seriamente, perché si dà per scontato che le esperienze siano state fatte, e che soprattutto il soggetto abbia sviluppato una psiche individuale, definita, coerente e indipendente.
Se non succede non si parla più di ingenua immaturità. Si parla di infantilismo che si fonde molto bene con la stupidità.
Bene, Chicco è un perfetto esempio di infantile stupidità.
La trama è molto semplice: due ragazzi gay si incontrano, si “innamorano” (è un gran parolone se si mette in relazione il loro comportamento col tempo che ci hanno messo a conoscersi), poi c’è la rottura derivata dalle normali, quotidiane divergenze dell’esistenza, e Chicco non ce la fa a togliersi Lele dalla testa.
Niente di nuovo, niente di eclatante, divergenze attuali che potrebbe riguardare chiunque, che possono rivelarsi interessanti e intriganti se narrate nel modo giusto.
Queste non sono state narrate nel modo giusto.
Lele è un viziatello superficiale con serie tendenze alla schizofrenia, mentre Chicco è il personaggio più auto-illuso che mi sia mai capitato di incontrare, debole di carattere, lamentoso e incoerente, che sa risvegliare solo una grande insofferenza nei suoi confronti.
Se nella prima parte del romanzo il mio disgusto era stato tutto per Lele – il ragazzo figo, talmente figo che è un po’ troppo figo, e già dalle prime pagine è palese che c’è qualcosa che non va – nella seconda ho provato del serio disprezzo per Chicco.
È finalmente riuscito a lasciarsi alle spalle uno psicotico eppure non riesce a vivere senza di lui: trascura l’università, gli amici, si crogiola nel suo vittimismo universale continuando a rimuginare interi capitoli su quanto Lele l’abbia fatto stare bene quando ancora non si era dimostrato per quello che era in realtà, su quanto non si capaciti di come la sua vita non abbia più senso senza la sua presenza, su quanto Lele gli abbia insegnato ad amare davvero, su quanto il sentimento che ha provato era qualcosa di speciale che quelli intorno a lui non possono capire, e blablabla.
Tu non capisci… per me lui era tutto, era il primo vero amore, era la ragione della mia esistenza… tutte le cose che ci siamo detti, le cose che mi ha scritto… io non avrei mai pensato che tutto sarebbe finito così, senza più niente, neanche la speranza
Centotrenta pagine di simile andazzo, una frase più patetica dell’altra, in cui Chicco si comporta come un bastardo nei confronti della famiglia esibendosi in riflessioni che in tutta onestà ho trovato presuntuose ed egoistiche, mentendo e continuando ad assecondare se stesso piuttosto che soffermarsi a pensare che forse dovrebbe cambiare atteggiamento invece di piangere perché tutti quelli che gli stavano intorno gli hanno dato (giustamente) il benservito.
In pratica la storia è patetica. Ampollosa, piagnucolosa, irritante, che si trascina riga dopo riga fino a un epilogo degno dell’idiozia di Chicco.
Il linguaggio è italiano corretto – il che gli è valso la stellina e mezzo – ma è usato malissimo.
“Mamma non è più con noi, altrimenti avrebbe saputo amalgamarci meglio di quanto non riusciamo a fare da soli.”
Narratore esterno e dialoghi dei personaggi sono tutt’uno, non c’è differenza tra parlato e scritto, i termini usati sono cerimoniosi, eccessivamente poetici e assurdi, di una pomposità che raggiunse l’apoteosi nelle mail che i due si scambiano, grondanti di involuzioni, figure retoriche, melensaggini così pletoriche da far perdere qualsiasi credibilità al romanzo.
Noia, noia, noia.
Non lo consiglierei, né tantomeno lo rileggerei.