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[Recensione] At the Devil’s Door (di Nicholas McCarthy, 2014)
Creato il 20 ottobre 2014 da Frank_romantico @Combinazione_C(Il post non contiene spoiler ma comunque riferimenti e immagini che potrebbero rovinare la visione)
L'orrore del "non lo vedo però c'è", in un film horror, è la rappresentazione più maestosa e potente del perturbante. Parto da questa mia considerazione quando mi accingo a vedere e (poi) a parlare di un qualunque film horror, perché è questa la mia concezione (molto superficiale) di "paura". L'esempio tipico che faccio quando voglio spiegare questo concetto è una scena di The Conjuring, quella in cui una bambina punta il dito terrorizzata verso un angolo della sua stanza sussurrando "c'è qualcuno lì" mentre noi spettatori non vediamo assolutamente niente. E lì scatta un meccanismo secondo cui A) ci aspettiamo che qualcosa venga fuori all'improvviso (cosa che il più delle volte succede) B) iniziamo a dubitare di noi stessi perché, forse, qualcosa lì c'è solo che noi non siamo in grado di vederla.
Ripeto: paura, non spavento. Lo spavento c'è quando, nello stesso film, la vecchia strega ci salta addosso dall'armadio oppure quando il mostro ci corre incontro, quando qualcuno ci fa "buuu" dietro la schiena o, insomma, quando qualcosa appare in tutto il suo irreprimibile orrore.
Ora, in ambito cinematografico, c'è chi sfrutta la paura, chi lo spavento e chi è capace (o almeno ci prova) di mischiare le due cose insieme. Per creare la bomba micidiale, per creare il vero film "di paura". A memoria mi vengono in mente il solito James Wan, Ti West, Mike Flanagan. Certamente con risultati non sempre all'altezza, certe volte pessimi ma che, ripeto, per lo meno ci provano. Un po' come fa Nicholas McCarthy.
Di McCarthy ho già parlato qui, quando un po' lodai e un po' massacrai il suo esordio dietro la macchina da presa, quel The Pact che si aggiungeva in modo abbastanza originale (bisogna ammetterlo) al filone delle case infestate e delle storie di fantasmi. Un modo per seguire la corrente senza rinunciare alla propria personalissima visione, cosa importantissima in un'industria dove tutti citano e imitano tutti. Dopo The Pact, però, l'oblio, almeno fino a un paio di mesi fa quando è uscita, in America, l'opera seconda di questo regista dal titolo At the Devil’s Door, conosciuta anche con il titolo Home.
Una ragazza, per amore del suo giovane boyfriend, decide di partecipare ad un gioco con un vecchio messicano in una roulotte in cambio di 500 dollari. La ragazza avrà i soldi ma avrà anche un regalino: il diavolo. Questa vicenda sconvolgerà le vite di due sorelle, una agente immobiliare, l'altra artista.
Già dal titolo si intuisce: questa volta si tratta del diavolo e, più specificatamente, di possessione demoniaca. Quindi piccola variazione sul tema, anche questa volta seguendo la corrente, anche questa volta in modo per lo meno originale. Perché in Home Nicholas McCarthy ci mette tutti gli elementi tipici del (sotto)genere ma li tratta in un maniera personale, in linea con quella che potremmo ormai definire "la sua poetica". Tra The Pact e At the Devil’s Door c'è infatti un'evidente linea di continuità nonostante si tratti di due film completamente diversi. Ancora una volta storia di sorelle, ancora una volta storia di donne, ancora una casa che fa da catalizzatore. Ancora una volta il male che si annida lì dove viene a mancare la sicurezza, ancora una volta la critica sociale.
I personaggi del film, le tre protagoniste, sembrano essere accomunate dalla solitudine e dalla mancanza d'amore. Amore che cercano a tutti i costi, in tutti i luoghi possibili solo per cadere nella trappola che tende il demonio. Allo stesso tempo si tratta di personaggi carenti a livello psico-fisico, tutte donne a metà e che quindi, poste di fronte al sovrannaturale, sono incapaci di reagire e di confrontarsi. Non solo non possono chiedere aiuto, non possono nemmeno aiutare loro stesse. Quindi dal diavolo, che con personalità del genere ci va a nozze, non possono difendersi. Ed ecco che succede quello che succede, ed ecco che Home si allontana dalle soluzioni che risolvono gran parte degli altri film non trovando soluzione alcuna: il male non si può sconfiggere, le protagoniste non ci provano nemmeno, ne vengono invece schiacciate o, tuttalpiù, sono costrette ad accettarlo. A quel punto il diavolo fa quel che gli riesce meglio: colma il vuoto, diventa la risposta migliore. Il senso ultimo allora si carica di inquietudine, di disperazione, diventa critica ad una società impreparata, gretta, capitalista e vittima della modernità. Indicativo in tal senso è il fatto che, in At the Devil’s Door, l'oggetto maledetto sia una mazzetta di banconote e che l'ambientazione sia l'America in crisi, come il resto del mondo.
Per dipingere tutto questo Nicholas McCarthy si affida alla complessità di una struttura che si evolve su tre livelli, sviluppandola con lentezza e fermezza, rinunciando allo spavento preso come meccanismo terrificante, avvelenando l'aria, rendendola stagnante, puntando su un'atmosfera opprimente e su una fotografia tra il saturo e lo smorto . E allora noi non siamo più in grado di vedere o capire da dove arriverà l'orrore perché potrebbe annidarsi ovunque e quando questo spunta all'improvviso ci coglie impreparati. Lo stesso antagonista maligno si rivela nelle sfumature sfuocate che ci impediscono di riconoscerlo per quello che è. Tranne in certi momenti, quelli giusti, in cui arriva per farci "buuu" e farci saltare sulla sedia. Come avevo scritto all'inizio: mischiare paura e spavento. Tutto per farci scoprire inadeguati a predire la soluzione di una vicenda a suo modo "classica", difficoltà che nasce soprattutto dal modo in cui McCarthy ha scritto storia e personaggi. Perché mancano gli spiegoni, mancano i flashback, manca l'intervento esterno (solitamente poliziotti, scienziati, medium) e razionale. Lo stesso stile è il più classico tra i classici ma depurato da quelli che chiamiamo "trucchetti" o espedienti, senza i fronzoli del lavoro precedente, senza i rallenty o il gusto feticista per le attrici e per il loro lato B.
Ovviamente però non tutto è oro quel che luccica e anche questo film sembra essere affetto da un male ormai incurabile. Ad esempio il desiderio di stupire a tutti i costi con scene (e scelte) improbabili. Su tutte quella dell'ecografia (presa pari pari da The Possession), il momento della lotta contro la forza invisibile di Peliana memoria, soluzioni narrative facili e incomprensibili, un paio di scene superflue in cui ci viene spiegato quel che era già ovvio oppure il finale allo Rosemary's Baby, per me troppo poco approfondito. Tutti peccati che inficiano la riuscita finale di un film che segna, comunque, un miglioramento rispetto al lavoro precedente del suo regista e che fa presagire cose interessanti per il futuro. Una sola cosa è certa: difficile non aver paura degli angoli più bui della propria casa a fine visione. Difficile e non averne di quelli della nostra mente o... della nostra anima, se preferite!
Per leggere punti di vista differenti dai miei:
Midian Il Giorno degli Zombi
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