foto durante il tournage in Puglia
Stufo di mantenere i tre figli fanigottoni, papà Vincenzo (ricco costruttore milanese che si è fatto da sé) si finge in bancarotta e senza più euri, e li costringe a cercarsi un lavoro. Certo, un film pieno di cliché che riflette tutti i pregiudizi e i risentimenti dei baby boomers invecchiati nei confronti dei venti-trentenni di oggi. Perfino con malcelate nostalgie maoiste-sessantottine (quella rieducazione forzata dei figli fighetti ricorda la banda dei quattro che mandava gli intellettuali a lavorare di vanga). Però una commedia che almeno non concilia e non paraculeggia. E si ride abbastanza. Diego Abatantuono maestoso, di una stazza fisica orsonwellesiana. Voto 6 e mezzo
La seconda commedia nel giro di qualche settimana che si snoda intorno al clamoroso abisso di oggi tra le generazioni. Se l’americano
Lo stagista inaspettato smussava e conciliava le differenze, qui, in questo prodotto made in Italy e anche molto made in Milan (domina il tono comico della tradizione Derby-Zelig) almeno nella prima parte si va giù durissimi con la contrapposizione. Sposando il punto di vista dei vecchi baby-boomers, perlopiù (basta sentire qualche parere) orripilati dal fanigottismo dei venti-trentenni, dalla loro vacuità, dal narcisismo. Tutto un esecrare e indignarsi, tutto un signora mia che si riassume nel noto grido di dolore e d’incazzatura: ma questi non ci han voglia di lavorare! ma questi con l’alibi della crisi continuano a farsi mantenere, vacanze e happy hour compresi, dalla famiglia! Ci han ragione? Per carità, non fatemi entrare in ‘sto dibattito che non ne tengo nessuna voglia. Dico solo che come congegno narrativo d’innesco questo abisso e anche odio tra le generazioni può funzionare molto bene, e difatti
Belli di papà, remake immagino alquanto libero di una commedia teatrale e poi cinematografica messicana, funziona, almeno fino a quando tiene aperte la contraddizione come una voragine, mentre s’affloscia quando si arriva in vista del necessario, perché così dev’essere in un film orientato sulle masse, finale che tutto aggiusta. Mantenendo in corso di racconto un tono aspro, acido e realistico (si veda solo come il solito aiutino in fatto di location dell’Apulia Film Comisson qui sia usato non per cartolineschi sfondi tipo
Io che amo solo te, ma per consegnarci una Taranto disfatta, slabbrata e allarmante con vista su torri petrolchimiche), credo anche per merito di Guido Chiesa, un regista non proprio aduso alle ruffianaggini. Il milanese Vincenzo, evoluzione ma non troppo del classico cumenda che ha fatto i dané visto in decine e più di film, è un costruttore con appalti in mezzo mondo, adesso per dire sta brigando per il contratto di un’austostrada nell’emergente Kazakistan. Figlio, come tanta parte di Milano, e come lo stesso Diego Abatantuono che lo interpreta, di un immigrato venuto dalla Puglia. Ricco, rispettato, realizzato, con però un cruccio, un fastidio, una stilettata permanente al cuore, quei tre figli, due maschi una femmina, che i dané anziché farli e incrementarli li spendono, li consumano, li dilapidano nelle solite stupidate della Milano affluente d’oggi, tutto un localini di food, startup che non partono mai e se parton son disgrazie per il povero padre che deve metterci i soldi. Con il minore e più timido dei tre che parla letteralmente come un libro (di massime) stampato, non si laurea mai in psicologia e si scopa solo signore over 50, e più son mature meglio è. Il Vincenzo, che è tipo tosto e pratico e conosce il mondo, sa che c’è poco da fare con quei magna-a-ufo, che ogni speranza è persa se non si procede con le maniere forti. Allora, ecco il piano escogitato con il buon socio Giovanni. Fingerà di essere finito in miseria, di essere ricercato dalla giustizia per una qualche bancarotta fraudolenta, in modo da costringere i tre fancazzisti a rimboccarsi le maniche. Così, ecco un’irruzione (finta) delle forze dell’ordine nella villona, la fuga con una scassata macchinetta con i rampolli in direzione di Taranto, della casa paterna. Si ricomincia, e senza dané, in una stamberga nei peggio vicoli tarantini. E l’annuncio del padre: qui non ci son più euro, dovete arrangiarvi. Quel che segue è prevedibile, e però pure godibile. Il figlio tutto startup costretto a portare monnezza in una discarica abusiva, la figlia a servire tavoli in una trattoria (altro che i templi e tempietti del food milanese), il terzo a vendere porta a porta algacce dimagranti. E l’impatto, ovvio, sarà devastante per i pargoli e causa di parecchie situazioni comiche. Ce la farà il Vincenzo a rieducare maoisticamente (nel senso della rivoluzione cuturale che mandava gli intellettuali a lavorare di braccia e vanga nelle campagne) la viziata prole? Non dico altro, e però questo
Belli di papà si segnala per essere assai meno compiacente e paraculo della media delle nostre cinecommedie. Non strizza l’occhio, semmai lancia occhiatacce. Vero, sposa in pieno il punto di vista delle vecchie generazioni sessantottine maltrattando, a torto o a ragione, le giovani (che peraltro poi, nella vita che viviamo, ricambiano l’odio e l’astio e il pregiudizio sognando e mandando avanti rottamazioni sanguinose). Dunque sarà interessante vedere come il pubblico dei venti-trentenni risponderà, se ci sarà o meno un rigetto da parte dei coetanei di quei figli viziati così messi alla gogna. Al box office la risposta. Gli attori: Diego Abatantuono ha ormai raggiunto una stazza maestosa da Orson Welles, di cui ha pure i lampi luciferini negli occhi, e occupa fisicamente il film fino a stritolarlo e farlo proprio, aggiungendovi battute fulminanti delle sue. Bravi i tre ragazzi nullafacenti, con citazione per Matilde Gioli, la ragazza lanciata da Virzì in
Il capitale umano, tipo temperamentoso e volitivo con un che di Mariangela Melato e Maddalena Crippa cui il nostro cinema dovrebbe fornire più occasioni. A Francesco Facchinetti, al suo esordio in cinema, tocca il personaggio negativo, il classico, mellifluo, infido cacciaballe a caccia di soldi aggiornato alla scena milanese del nulla sberluccicante d’oggi, e nel suo completo orrendamente rosa se la cava bene.