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Recensione: “Biggie”, Derek E. Sullivan.

Creato il 23 febbraio 2015 da Chiara

Recensione: “Biggie”, Derek E. Sullivan.Titolo: Biggie
Autore: Derek E. Sullivan
Editore: Albert Whitman & Company
Pagine: 272
Anno: 2015

Sinossi
Henry “Biggie” Abbott is the son of one of Finch, Iowa ‘s most famous athletes. His father was a baseball legend and his step-dad is a close second. At an obese 300+ pounds though, Biggie himself prefers classroom success to sports. As a perfectionist, he doesn’t understand why someone would be happy getting two hits in five trips to the plate. “Forty percent, that’s an F in any class,” he would say. As Biggie’s junior year begins, the girl of his dreams, Annabelle Rivers, starts to flirt with him. Hundreds of people have told him to follow in his dad’s footsteps and play ball, but Annabelle might be the one to actually convince him to try. What happens when a boy who has spent his life since fourth grade trying to remain invisible is suddenly thrust into the harsh glare of the high school spotlight?

Recensione: “Biggie”, Derek E. Sullivan.

Il motivo per cui ho richiesto questo libro su NetGallery (che doverosamente ringrazio per avermene concessa una copia in cambio della mia onesta opinione) è uno soltanto: la copertina. Adoro questo genere di cover, catturano la mia attenzione molto più di quanto una foto possa fare e mi danno come l’impressione che dietro gli accostamenti cromatici, i font particolari e l’approccio relativamente minimal si nasconda una storia che vale la pena scoprire. Prendete esempio, CE italiane, e permettete ai nostri grafici di guadagnarsi da vivere creando copertine accattivanti come questa! Ma al di là della copertina, c’è da dire che anche la trama di questo romanzo non è affatto male. Al contrario, si è rivelato una vera sorpresa.

I have friends. Tons, actually. Over the past four years, I have accumulated a massive number of online friends. I’m not lonely, far from it. Tonight, I’m looking at pictures from my online friend Lucy’s seventeenth birthday party. Lucy lives to have fun. She loves guys and girls who party. She smokes Malboro Lights and weed, and stays out late, even on school nights. The only reason she gets online at all is because she’s so frienzied after a night of partying that she can’t calm down. In real life, a girl like her and me would neve coexist.

Biggie è un adolescente che non si limita ad essere grasso, è decisamente sovrappeso e lo è in maniera consapevole, perché dietro tutti i chili in eccesso ci si può nascondere. Convinto e contento di vivere nella sua stessa ombra, avido dell’invisibilità che – a detta sua – gli impedisce di essere preso di mira dai suoi compagni di scuola a cui deve il soprannome che odia, Biggie sarà costretto ad affrontare una prospettiva molto lontana dalla sua quando si troverà a partecipare – dopo anni di esonero – ad una lezione di educazione fisica e si dimostrerà capace di giocare la partita perfetta in quello che immagino essere una variamente semplificata del baseball (Wiffle Ball). E quando Annabelle, la ragazza di cui è segretamente innamorato, sosterrà che dovrebbe proprio giocare nella squadra di baseball della scuola, la decisione sarà facile da prendere: reclamerà i geni paterni, stella del baseball della città che ha rinunciato a qualsiasi legame con Biggie nel momento in cui questo è nato, per trasformarsi nel lanciatore capace di giocare una partita perfetta e conquistare così la ragazza dei suoi sogni.

The more he stares, the more determined I become to prove him wrong. Yes, I’m at a Finch baseball meeting, I want to yell. My little bastard of a brother says he’ll teach me to throw this macical knuckleball that will help me pitch the first perfect game in school history. Even though I’m determined, I feel stupid and out of place.

Leggere questo romanzo, in soldoni, si ridurrebbe a leggere una puntata di Made anziché vederla trasmessa su MTV se non fosse che Biggie è un personaggio assolutamente odioso, debole, patetico e con una tendenza allo stalking che in più di una situazione diventa davvero irritante. Incurante, egoista, incapace di andare fino in fondo ai suoi propositi fino a quando non viene messo alle strette dalla concreta possibilità di aver contratto il diabete, Henry Abbott è un antieroe fatto e finito al punto che in più di una occasione viene voglia di conoscere piuttosto i suoi antagonisti, Killer – che quando erano bambini gli appioppò il soprannome – in primis. Non gli importa di deludere sua madre, che da anni spende una piccola fortuna per garantirgli una dieta sana e con alimenti di prima qualità, regalandosi ogni mattina una seconda colazione in un fast-food da quattro soldi. Non gli importa di ferire il patrigno, che si accolla la responsabilità e l’onere di rimetterlo in forma per cercare di stabilire un legame con una persona che ha sempre dato prova di non voler aver nulla a che fare con lui. Non si cura dei sentimenti del suo fratellino più piccolo, astro nascente del baseball, addossandogli colpe che non potrebbero mai essere sue. Biggie molla, quando la fatica è troppo grande o le cose non seguono esattamente la strada che ha immaginato nella sua testa. Si arrende in più di ogni occasione, manca di motivazione e le motivazioni che propina a se stesso e a chi lo circonda sono sempre sbagliate, deboli, insufficienti a sostenere lo sforzo che gli viene richiesto. Ai suoi occhi è sufficiente perdere peso, rimettersi in forma e saper lanciare bene per diventare automaticamente un titolare nella squadra di una città che ha fatto del baseball la propria religione. Non serve altro per conquistare Annabelle, che da subito mette bene in chiaro di non voler nulla da lui, e poco importa se per anni ha letto le sue email private dopo aver scoperto la password dell’account. Insomma, c’è davvero tanto che non va in Biggie, ma proprio tanto, e capita più di una volta di sentir le mani prudere per la voglia di prenderlo a ceffoni.

“God damn it, Biggie, talk!”
“I don’t want to be call Biggie anymore.”
“You want something in life, you have to earn it. You don’t want me, Maddux, your teammates to call you Biggie, then you have to earn it.”
He reaches forward, grabs the Mountain Dew, and gets out of the truck. I drop my head against the steering wheel like I might yank it out and grind my teeth, a thought boils inside me and I lean back and scream at the top of my lungs.
“God damn it, Mom. Why did you rip up that note?”

Eppure la lettura è straordinariamente piacevole, fa pensare moltissimo e lo stile dell’autore permette di apprezzare le brutture del suo personaggio attraverso pensieri espressi in prima persona che, nonostante tutto, fanno pensare ad un ragazzo che potrebbe essere molto migliore di quello che è ma che semplicemente è vittima di pigrizia e piagnistei. Biggie è un personaggio davvero ben costruito, la sua storia appassiona perché è questo che succede quando si mescolano il desiderio di riscatto e l’effetto extreme makeover in una combinazione assolutamente letale che si trasforma in un’altalena di odio-amore nei confronti di questo ragazzo che ha la maturità emotiva di un bambino e difficoltà fisiche quasi pari ai suoi paletti mentali. Eppure, dopo un po’, mi sono resa conto di non essere nessuno per giudicarlo e mi sono sentita in colpa nei suoi confronti per averlo giudicato debole, incapace, privo di spina dorsale. Solo successivamente mi sono resa conto che stavo sentendomi una brutta persona nei confronti di un personaggio di carta, e non di una persona vera e propria, e in quel momento ho realizzato la bravura di Derek Sullivan nell’aver creato un adolescente così realistico da spingermi ad approcciarlo come fosse di carne.
Biggie – il libro – mi è piaciuto molto. Sarà che Made era una delle mie trasmissioni preferite quando ero al liceo, sarà che quando qualcosa è scritto bene difficilmente non riesco ad apprezzare, sarà che nonostante tutto ho trovato il romanzo interessante e diverso dal solito, ma ho chiuso il libro con la sensazione di averci guadagnato moltissimo. E non è poco.



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