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Recensione: Bunker Diary, di Kevin Brooks

Creato il 08 maggio 2015 da Mik_94
Lo so che potrei morire qui. So che potresti uccidermi. Ma non riuscirai a uccidere i miei pensieri. A loro non serve un corpo, non serve l'aria, non servono cibo, acqua o sangue. Anche se mi uccidi, io continuerò a pensarti. Capisci? Ti penserò fino alla fine dei secoli.
Recensione: Bunker Diary, di Kevin Brooks Titolo: Bunker Diary Autore: Kevin Brooks Editore: Piemme "Freeway" Numero di pagine: 300 Prezzo: € 15,00 Sinossi: Linus, 16 anni, insieme a quattro adulti e una ragazzina di nove anni, si trova intrappolato in un bunker, uno spazio claustrofobico, da cui nessuno può fuggire. Sono stati rapiti da qualcuno che si è presentato loro ogni volta in modo diverso e non sanno perché sono stati scelti. Spiati da decine di telecamere e microfoni perfino in bagno, dovranno trovare un modo per sopravvivere.                           La recensione Lo scorso anno, Kevin Brooks mi aveva fatto vivere – con il suo L'estate del coniglio nero – l'adolescenza come io non l'avevo mai vissuta. Gli anni del liceo come parte di un giallo, la gioventù come pazzia da rave. Intossicazione da fumo passivo, miasmi di troppe verità. Vedere cos'è cambiato, da una generazione all'altra, e guardare con occhi diversi le cricche di amici sotto casa. Tu che hai appena vent'anni e non ti riconosci, e per fortuna, nelle esperienze e nei desideri di chi è poco più piccolo di te. C'è chi ne sta alla larga – genitori che fanno finta di niente, perché occhio non vede e cuore non duole; baristi che servono alcolici ai minorenni, tanto per toglierseli di torno; spacciatori che hanno clienti, ormai, sempre con meno barba in faccia – e chi, come Brooks, invece ci sguazza. Scrivendo romanzi per ragazzi, e sui ragazzi, con un coraggio pazzesco. Sfidando in continuazione. Il mistero avrebbe potuto trovare risoluzione più appagante, in quel caso, ma poco importava: L'estate del coniglio nero ero uno young adult esplorato – e sezionato - come uno sporco thriller, in un universo stanco di storie perfettine e letture bene educate. Da allora, è iniziato lo stalking accanito verso l'autore – e io, quando ha vinto la Carnegie Medal, modestamente c'ero. Su Facebook, pronto a bersagliarlo di “mi piace”, ma c'ero. Ad aspettare con ansia, ancora prima che la Piemme ne annunciasse l'uscita, questo Bunker Diary. Ansia. La parola chiave. Insieme a rabbia, asfissia, furia, angoscia, ansia e ancora ansia. Per me, almeno, che due minuti in ascensore con uno sconosciuto e già non vedo l'ora di scendere.  Recensione: Bunker Diary, di Kevin Brooks Prendi in considerazione ogni scappatoia quando c'è qualcosa che ti spaventa. Montagne russe nemmeno per scherzo, se la paura è tutta una vertigine. Scale ripide e piedi che non ti abbandonano, se il timore è l'immagine di te sigillato in una scatola di scarpe. Uno imbroglia come può, illudendosi che la vita sia cosa sua. Bunker Diary ci fa riflettere sul fatto che non siamo nulla, che l'esistenza è un attimo e che viviamo tutti in un mondo matto. Coraggio è perciò anche uscire di casa. Allora non spaventano più le altezze, gli spazi stretti, gli insetti ma l'uomo. E dell'uomo puoi avere paura fino a un certo punto, altrimenti poi che fai?, ti rinchiudi in un'altra scatola, tu che eviti gli ascensori apposta? E questa volta l'adulto al piano di sopra, che gioca al gioco di Dio, è il male e un adolescente in trappola, screanzato e ribelle ma con l'animo pulito, è la speranza dei perdenti nonostante tutti gli sbagli dei suoi sedici anni all'addiaccio. Linus è scappato di casa: odia suo padre, il suo stupido nome da fumetto, ama la musica. Suona per strada e vive in metropolitana, dell'elemosina di te che passi, non lo guardi, gli lanci una moneta: la scelta della povertà, come San Francesco, e non per la santità ma per la libertà. Quanti accenti di fila, quanti bei sogni. E' un bravo ragazzo, lui, travestito da tossico: fa parte del personaggio che si è creato per dormire sotto un cartone senza grane, ma è gentile e la gentilezza lo frega. Aiuta un cieco con la spesa, ma il cieco non è cieco, lo narcotizza, lo carica in macchina, lo imprigiona in un cubo di cemento. Una specie di monolocale sottoterra, con sei letti, sei bicchieri e sei forchette di plastica. Per gente che non sa di essere già morta.  Recensione: Bunker Diary, di Kevin Brooks Per lui, che all'inizio è solo e poi si ritrova a respirare gli odori e a sopportare gli scleri di una bambina di nove anni, di una agente immobiliare, di un eroinomane in astinenza, di un ciccione in abito scuro, di un filosofo con un piede nella fossa. Sei persone, tutto quel bianco, poi tutto quel nero quando le luci si spengono. Alle pareti, un orologio che imbroglia e un ascensore che fa su e giù, aprendo le porte a incubi e sorprese. Dove pensi di scappare? La lotta per la sopravvivenza si consuma, logorante e inevitabile, in meno di trecento pagine di diario. Un taccuino in cui il narratore - quando capita, quando ha la forza, quando il carceriere tiene la luce accesa – appunta le sensazioni e i sapori di un incubo orribile. La scrittura è la sua valvola di sfogo – e le pagine del diario non sono commestibili, ci ha già provato con una vecchia Bibbia; e la penna non è abbastanza resistente per uccidere o uccidersi – e il lettore, un tu generico che acquista sempre continui significati, diventa ora quel padre rimpianto, ora un amico, ora quel misterioso aguzzino contro cui sfogarsi. I ritmi sono snervanti e inquietano più le pagine lasciate in bianco che quelle fitte fitte di torture psicologiche, subdoli passatempi, pensieri lividi. Kevin Brooks lo si ama e lo si odia. Fa del male – a te, alle sue creature, a te che sei una sua creatura se leggi i suoi turbolenti deliri – ma ha due palle grosse così. I bambini non dovrebbero soffrire, e qui soffrono. Gli adolescenti dovrebbero leggere romanzi costruttivi, e qui è distruzione. Se lo avessi letto qualche anno fa, mi avrebbe sconvolto. Non c'è un senso al male, alla violenza; non c'è una spiegazione. Si è lì e basta. Topi che scavano nella pietra in cerca di una via d'uscita, ma che confondo l'alto col basso e si smarriscono. Anche alla mia età però mi ha destabilizzato. Con la descrizione sofferta di giorni statici, le pene della convinvenza forzata, giovani protagonisti che non vogliono salvare il mondo come nei distopici. Lottano contro la diarrea, i crampi allo stomaco, la puzza di corpi non lavati perché il burattinaio ha chiuso l'acqua. Spesso, muiono. Assolutamente terrificante, sarà che subisci il male passivamente e, anche all'ultima pagina, non sei grado di dargli un volto. Brooks ti racconta la storia di uno dei sei prigionieri, mentre fa il gioco esatto dello scienziato pazzo. Cavolo, se ti mette alla prova! Il suo stile a schegge e spigoli è un esperimento e tu paghi il prezzo di copertina per essere tormentato. Una provocazione claustrofobica e intelligente, con le atmosfere di The Cube, Buried, Saw e gli epiloghi spiazzanti che solo nei libri spiazzanti. Alla faccia del young adult. Ho letto romanzi cattivi e romanzi cattivissimi, ma Bunker Diary – la copertina a disegni, l'aria infantile – alza di un po' l'asticella della crudeltà consentita. Il mio voto: ★★★★ Il mio consiglio musicale: Muse – Hysteria

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