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Recensione. CINEMA KOMUNISTO, il cinema ai tempi di Tito

Creato il 15 giugno 2015 da Luigilocatelli

CK1 slavica1CinKom Avala kapijaCinema Komunisto, un docufilm di Mila Turajilic. Distribuito da CineClub Internazionale. A Milano è in programmzione al cinema Beltrade.
CinKom bata muzejUn documentario che ricostruisce il cinema di un paese che non c’è più, la Repubblica di Jugoslavia. Quando all’ombra di Tito, il leader più cinefilo che ci sia mai stato, si producevano decine di pellicole all’anno, con un occhio di riguardo per i partizan films che celebravano la lotta antinazi e antifascia. Quando negli studios di Belgrado e al festival di Pola arrivavano le star mondiali, in un tripudio di glamour socialista. Voto 7+
CinKom projekcijaSe vi capita, andatevelo a vedere, sempre che proviate un minimo di interesse per gli anfratti meno scrutati del cinema passato, e per il cinema come specchio e anche motore della Storia (capital letter, please). Per Storia in questo caso si intende quella della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, nata nel 1944, morta nel 1992, e nei modi sanguinosi che sappiamo. Cinema Komunisto è un brillantissimo, anche se parziale e fors’anche fazioso, excursusu attraverso il cinema prodotto dal regime di Tito, i suoi film, le sue case di produzione (soprattutto la belgradese Avala, mentre meno spazio si dà alla croata Jadran), le sue star, i suoi trionfi, le sue autocelebrazioni. Tito, il leader massimo, il totem, il grande liberatore del paese dal nazifascismo, l’eroe-presidente in cui gli jugoslavi per decenni si sono proiettati e riflessi e che tutti li ha rapppresentati, in una simbiosi che nella storia del Novecento ha pochi eguali. Tito, che con la sua morte nel 1980 manda in coma profondo la stessa federazione che da quel momento, privata della sua figua unficante e accentratrice, comincia a spappolarsi e segmentarsi secondo le linee di faglia delle diversità etniche e religiose. Tito, che già come altri leader di regimi totalitari, è innamorato del cinema e, non appena arrivato al potere, incoraggia la fondazione di un’industria nazionale che sia strumento di propaganda e divertimento per le masse (due obiettivi che possono benissimo coincidere, e nel cinema titoista hanno più volte coinciso). Tito, infine, che nella sua residenza di Belgrado – una villotta tuttosommato piccoloborghese, poca cosa a fronte di certe regge di satrapi euro-orientali e asiatici dell’altroieri, oggi e domani- si fa allestire una sala di proiezione dove consuma almeno un film al giorno insieme alla moglie Jovanka, indimenticata icona di una femminilità robustamente popolar-socialista con le sue ampie curve e quella complicata e ultracamp impalcatura di capelli. Per un totale – è il suo proiezionista a dircelo in Cinema Komunisto – di 8.801 film visti nel corso della sua carriera e vita, il che ne fa di sicuro il politico più cineappassionato della storia. Peccato che la regista non ci dica di più sui titoli proiettati, facendoci solo sapere attraverso il proiezionista che il presidentissimo amava soprattutto gli western e attori come John Wayne e Kirk Douglas. Gusti sanamente medi e qualunque, come si addice a un leader politico capace di sintonizzarsi per predisposizione quasi genetica con quelli del suo popolo. (E vien da riflettere su certe evidenti analogie e sovrapposizioni tra la categoria di popolo e quella di spettatori-consumatori di immagini che già prefigurano la pervasiva, successiva società dello spettacolo.)
Traspare da Cinema Komunisto una certa qual nostalgia canaglia per il cinema di regime dei lunghi anni di Tito, e indirettamente e immagino inconsapevolmente anche per lo stesso padre della patria socialista e per quella stagione di unità nazionale prima dei disastri e delle guerre balcaniche. Jugoslavia, Tito e cinema ufficiale finiscono nella narrazione che ne dà Mila Turajilic – signora alquanto giovane e che dunque non si direbbe portata allo sguardo affettuoso su un passato vissuto, immaginiamo, solo molto parzialmente – col mescolarsi fino a diventare una sola entità, un ibrido che è il vero oggetto del suo film. Per riuscire nell’impresa Turajilic restringe il cinema juogoslavo dell’era titina alla sola produzione di propaganda, anzi al suo genere principe, il partizan film, le storie di impavidi e maschi partigiani, spesso con lo stesso Tito come personaggio presente o incombente, in lotta contro l’invasore nazista e fascista. E son battaglie, scontri, imboscate, agguati in cui l’eroe dalla stella rossa sul berretto falcia decine e decine di nemici, in un’ecatombe continua irrealistica e astratta che ricorda molto da vicino quelle messe in scena dal contemporaneo spaghetti western. La regista monta spezzoni da decine di film (senza darcene di volta in volta i titoli purtroppo) che sembrano replicare tutti lo stesso paradigma visuale e narrativo, quello del partigiano giustiziere. E intanto ascoltiamo i testimoni di quell’epopea cinematografica, attori come Bata Živojinović, massima star maschile, o il regista Veljko Bulajić, spesso ripresi mentre si aggirano negli stabilimenti Avala oggi in abbandono e in completo degrada di quella che allora era la Cinecittà belgradese-jugoslava. Magazzini di costumi e armi, scenografie imponenti, attrezzature rugginose. E naturalmente stringe il cuore vedere un pezzo di storia del cinema andarsene via così. L’avventurosa storia della Avala, la sua ascesa e caduta, è una delle sottotrame migliori del film, con la nascita degli studi fortemente voluta dal maresciallo presidente e poi la svolta, e l’impennata, tra anni Cinquanta e Sessanta quando uno scaltro e abile uomo del regime la apre alle coproduzioni internazionali e alle star straniere trasformandola in preziosa macchina produttrice di valuta estera. Nella città del cinema di Belgrado affluiscono Alain Delon, Orson Welles (disposta a tutto pur di tirare su soldi per finanziare i suoi progetti), Yul Brinner, Franco Nero. Arrivano in visita Carlo Ponti e Sofia Loren. Il Metropol diventa l’hotel di riferimento per le celebrities di passaggio, inoculando nel realismo socialista del cinema titino, e nello stesso regime, il virus di un glamour fino a quel momento sconosciuto. Viene fondato all’Arena di Pola il festival in cui ogni anno il cinema jugoslava celebra se stesso e premia il miglior film, spesso il preferito da Tito, che non manca di presenziare alla manifestazione con l’inseparabile Jovanka (l’isola di Brioni, sua residenza estiva, è lì a due passi).
Delle coproduzioni vediamo un qualcosa sui Vichinghi e un film minore, Le meravigliose avventure di Marco Polo, con Alain Delon, mentre niente si dice dei molti italiani che andavano lì a girare di tutto, western e peplum compresi, contando su un costo del lavoro più basso, su location diversificate, sui potenti mezzi che il regime metteva a disposizione: dei registi stranieri e soprattutto dei locali, che per i loro partizan movies potevano contare su vere armi e veri carrarmati e quant’altro dell’esercito jugoslavo, e su centinaia e migliaia di soldati mandati a fare le masse gratis. Sicché capitava che si sparassero veri proiettili su quei set balcanicamente selvaggi ed esplosivi, che a incendiarsi, fracassarsi o finire giù dalle scarpate fossero veri cingolati. Uno sciupio vistoso, e un’ossessione realista, che trovarono in La battaglia della Neretva l’apice e la celebrazione. Neretva, del 1969, è il più colossale di tutti i film jugoslavo di sempre, sorvegliato a distanza dallo stesso Tito visto che si trattava di ricostruire e rievocare uno dei momenti fondamentali della guerra antinazi e antifascia. Enormi mezzi, e un cast internazionale in cui c’era pure la juogoslava poi italiana Sylva Koscina, tornata a casa a celebrare una guerra di liberazione che probabilmente aveva conosciuto solo marginalmente. La battagia della Neretva fu il massimo successo di sempre in patria e un buon successo in tutto il mondo, arrivando a vincere l’Oscar del miglior film in lingua straniera. Ma a impressionare ancora oggi è il ponte vero fatto saltare per una delle scene clou, e che sta sempre lì, spezzato, nello strapiombo ad attirare folle di turisti e soprattutto nostalgici della defunta Jugoslavia.
In Cinema Komunisto compaiono anche Liz Taylor e Richard Burton in visita da Tito, et pour cause, visto che sarà proprio lui a interpretare il maresciallo-presidente nel biopic che verrà girato nei primi anni Settanta, ma che non ce la farà a replicare il trionfo planetario di Neretva. C’è molto di bello e interessante, e importante, in Cinema Komunisto, solo con qualche eccesso nostalgico che si fa a momenti involontariamente celebrativo, e che si sarebbe potuto evitare. Privilegiando il cinema che fu riflesso ed emanazione del regime, Mila Turajilic finisce col trascurare e dimenticare un cinema jugoslavo differente, che pure ci fu. Come quella Black Wave che tra anni Sessanta e Settanta cercò, con registi come Dusan Makavejev e Alexander Petrovic (Ho incontrato anche zingari felici), di importare tra Zagabria e Belgrado i fermenti e una qualche eco delle sperimentazioni nouvellevaguistiche. O come l’esordio made in Sarajevo (Ti ricordi di Dolly Bell?) di Emir Kusturica. I film-parata e resistenziali non furono tutto, e adesso aspettiamo che ce lo testimoni un altro docu che vada a lato e oltre il serbocentrico e belgradocentrico Cinema Komunisto. Film, quello di Mila Turajilic, che risale peraltro al 2011 e approda solo adesso da noi dopo aver fatto il giro di decine di festival (ma va bene così, e tante grazie a CineClub Internazionale che lo distribuisce e alle sale, come il Beltrade a Milano, che lo proiettano). È il caso di sottolineare come il cinema partigiano dell’era Tito rispunti in alcuni momenti di altri due documentari recenti, Flotel Europa, visto lo scorso febbraio alla Berlinale, e Tito’s Glasses, pure lanciato dalla Berlinale 2015 e poi vincitore della sezione docu al festival milanese di cinema femminile Sguardi Altrove. In entrambi i casi si vedono spezzoni di partizan movies con piccini eroi (nel primo) e piccine vittime (nel secondo). Segno di come quel cinema abbia modellato nel profondo l’anima ex e post jugoslava e persista nel ricordo di chi ne è stato spettatore.


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