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Recensione del film Il solista (2009)

Creato il 24 luglio 2010 da Renzo Zambello

Robert Downey Jr. riesce a donare al suo Steve Lopez momenti di assoluta verità fornendo una performance semplicemente perfetta, motivo principale per vedere il film.

Recensione del film Il solista (2009)
 Genio, estro musicale e follia vanno spesso a braccetto. Non sono pochi gli artisti dotati di enorme talento, ma afflitti da gravi turbe psichiche e la storia del cinema non perde occasione di fotografarne i ritratti impietosi in pellicole più o meno riuscite. E’ questo il caso de Il solista, storia vera nata dall’esperienza del giornalista del Los Angeles Times Steve Lopez che, passeggiando per le strade di Los Angeles, si è imbattuto nel talento debordante dello schizofrenico Nathaniel Anthony Ayers. L’incontro tra i due ha spinto Lopez a usare la sua rubrica per rendere nota la storia del musicista, ex studente della Juilliard che vive e suona per strada, commuovendo gli USA. Quando si affrontano temi delicati come la malattia e l’emarginazione il rischio di far leva sul ricatto emotivo, mettendo l’accento sugli aspetti patetici della vicenda, è elevato. Fino a oggi il regista Joe Wright si era distinto per equilibrio e pudore. I suoi primi due lungometraggi, l’adattamento del capolavoro di Jane Austen Orgoglio e pregiudizio e l’intenso Espiazione, hanno messo in luce il suo talento nel rappresentare tormentate vicende sentimentali con garbo ed eleganza. Stavolta, però, Wright si spinge troppo oltre e per evitare l’effetto Shine (pellicola suggestiva e potente, ma priva di misura) costruisce un’opera che poco o nulla concede sul piano dell’emotività.

Il solista si affida interamente alle performance dei suoi due interpreti, il camaleontico Jamie Foxx, capace di immergersi completamente nei personaggi interpretati mutuandone voce, tic e movenze, e l’immenso Robert Downey Jr., uno dei migliori attori della sua generazione. Se Foxx è in qualche modo favorito nel compito dalla natura del vero Ayers e dal suo essere costantemente sopra le righe, è Downey Jr. a compiere il lavoro più introspettivo e, di fatto, più difficile. L’attore riesce a donare al suo Steve Lopez momenti di assoluta verità fornendo una performance semplicemente perfetta, motivo principale per vedere il film. Con una storia come quella che si ritrova tra le mani, il londinese Joe Wright avrebbe a disposizione un materiale veramente forte, eppure Il solista non riesce mai a fare breccia nel cuore dello spettatore, mantenendo nei suoi confronti una distanza e una freddezza costanti. L’opera scorre piacevole ed equilibrata, ma priva di picchi emotivi. In più lo sguardo naturalistico a cui il regista ci ha abituato, a tratti, viene interrotto dalla presenza di artificiosi effetti visivi che fungono da proiezioni mentali di Nathaniel Ayers, tentando di visualizzare le sensazioni scaturite dal piacere dovuto all’ascolto di un concerto di Beethoven o gli attacchi di schizofrenia. I colori non naturalistici, il montaggio concitato e i voli della cinepresa interrompono momentaneamente il flusso della narrazione alterandone il tono e rischiando di apparire ingenui rispetto al contesto realistico.

Per fortuna a controbilanciare questi artifici vi è la meritevole scelta del regista di ambientare buona parte della pellicola nei sobborghi di Los Angeles, girando numerose scene in un vero ricovero per barboni e facendo uso di veri senzatetto come comparse. Contiene maggior verità la sequenza che accompagna i titoli di coda, di cui non sveliamo il contenuto, di alcuni dei momenti clou della narrazione, momenti che non solo non riescono a commuovere e coinvolgere lo spettatore, ma talvolta generano un senso di vago disagio. Una nota stridente nella suite musicale.

di:  Valentina D’Amico  

da: http://www.movieplayer.it/articoli/07091/una-nota-stridente/  

Commento del Dott. Zambello

Ho visto ieri sera il film Il solista. Sono d’accordo con la giornalista,  il film non ti coinvolge mai, rimani  sempre uno  spettatore un po’ staccato, un po’  curioso e un po’ schifato davanti alle immagini proposte  che  senti e sono,  vere. Dice la giornalista: “…. il regista   costruisce un’opera che non riesce mai a fare breccia nel cuore dello spettatore, mantenendo nei suoi confronti una distanza e una freddezza costanti. L’opera scorre piacevole ed equilibrata, ma priva di picchi emotivi “. E’  questa la bellezza e direi la credibilità del film  che abbandona la tentazione della favola da Hollywood,  dell’Oscar e  si trasforma in documentario, quasi un  documento clinico.  Il regista capisce, conosce, sa che la “follia” non é bellezza, emotività, non c’é niente di edificante nella malattia mentale. Essa é dolore, sofferenza,  senza un riscatto finale, un perché. Anche esteticamente tutto appare brutto e  sporco. E’ geniale, a mio parere quando  ”ascolta” la musica del protagonista: poche note che si ripetono ossessivamente e   tenta di immaginare le sue emozioni  ad un concerto “vero”. Sono immagini, ha ragione la D’Amico,  un po’ ingenue  che disturbano e rompono il racconto. E’ la non bellezza, la non creatività  della follia.


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