Kollektivet – Photo: courtesy of Berlinale
Siamo tutti cresciuti sentendo pittoreschi racconti sugli anni ’70. Il cinema trabocca divertenti pellicole sui figli dei fiori che vivevano esistenze basate sul sesso libero, tonnellate di droga e tanto ottimo rock and roll. Tutti abbiamo sempre associamo a quel periodo le comuni, abitazioni enormi, spesso in campagna, in cui un gruppo di persone univa le forze e, dividendo le spese e i ruoli, viveva sotto lo stesso tetto. Quello che (forse) non tutti sanno è che il cineasta Thomas Vinterberg sia cresciuto all’interno di una comune danese in cui, a parte fiumi di birra e corpi simpaticamente ignudi, si conduceva un’esistenza cosiddetta normale, con regole precise, senza esagerazioni e tutti potevano contare sugli altri. Una situazione di condivisione e supporto reciproco invidiabile se paragonata a ciò che caratterizza il millennio che stiamo vivendo, una solitudine estrema.
Kollektivet, il film presentato in concorso qui Berlino, rimane distante dall’essere un’autobiografia per esorcizzare demoni dell’infanzia, è una storia nuova, di finzione, che dal palcoscenico su cui è nata, arriva su grande schermo (al contrario di quanto capitò con Festen). Questa storia parla di sogni, speranze, illusioni, disillusioni e delusioni, scava nei sentimenti e nella loro fragilità, e ci ricorda che tutto scorre e nulla è per sempre. È una parabola di un gruppo di esseri umani non troppo diversi dalle persone del mondo moderno.
Kollektivet © Ola Kjelbye
Tutto inizia con Erik che eredita la casa di famiglia a Hellerup, a nord di Copenhagen. La villa è meravigliosa, immersa nel verde, e conquista subito il cuore di sua moglie Anna. Purtroppo, però, è enorme. Rinunciare a una tale bellezza è un peccato, quindi decidono di invitare un gruppo di amici a vivere sotto lo stesso tetto. Nonostante l’iniziale perplessità del padrone di casa, alla fine prende forma una comune. La novità porta armonia, ringiovanisce tutti, è un’ondata di freschezza. Ma, all’improvviso, un’altra donna, entra nel cuore proprio di Erik e tutto cambia: la sua magnifica moglie, la progressista ed emancipata donna che ha sposato, la diva del tubo catodico, dovrà superare una prova durissima.
Anna è la vera eroina: è colei che propone, che osa, che s’impegna, che ha successo e che, alla fine, con dignità e compostezza, crolla sotto il peso dell’assenza di certezze, sicurezze, e troppa sofferenza e solitudine. Sarà la comune a scuoterla e farle riprendere il controllo. A indossare i suoi panni è l’attrice danese Trine Dyrholm che ci conquista tutti dal primo all’ultimo fotogramma. La sua Anna è magnetica, è intensa, è magnifica. L’abilità della Dyrholm di comunicarci disperazione con un fugace sguardo e di cambiare il tratto somatico nel tentativo di celare lo strazio interiore è impressionante. Sentiamo il respiro corto della moglie tradita, riconosciamo il dolore viscerale che prova la persona tradita e con lei piangiamo.
Trine Dyrhold in Kollektivet © Henrik Petit
La sala tifa per lei. Nonostante sui titoli di coda si sia udito un composto applauso, di fatto in molti hanno ceduto alle lacrime in un paio di occasioni e il motivo era sempre lo stesso: Anna/Trine. Cosi umana, cosi fragile, cosi uguale a di noi.
Vinterberg, ancora una volta ci ha preso in contropiede, ha cambiato genere ma è rimasto un esploratore infallibile del nostro lato nascosto, delicato, da proteggere. La fotografia calda accelera il coinvolgimento di chi guarda e le battute sono talmente attente da farci dimenticare di non essere al fianco dei protagonisti su quel magnifico set da cui non vorremmo più distogliere lo sguardo.
L’opera concorre per l’ambito Orso e la prima attrice ha tutte le carte in regola per aggiudicarselo. Da noi arriverà a fine marzo e il suo messaggio di speranza, il suo paniere di emozioni, il suo essere diretto potrebbe conquistare una audience più vasta del previsto.
Vissia Menza