Oggi parliamo di vita, di solitudine, di rispetto, di amore e di umanità, e di come siano magistralmente racchiusi in “Still Life”, un film tanto delicato, gentile e inaspettato, da aver toccato le corde di una variegata platea facendola annegare in una sommessa e generale commozione. Il neo-regista (alla sua seconda prova dietro la macchina da presa) è Uberto Pasolini, italiano di nascita ma dalla regia molto Brit, noto nell’ambiente cinematografico soprattutto in qualità di produttore (per intenderci, “Full Monty” fu opera sua), che da qualche anno narra storie per immagini con un tocco particolare e già inconfondibile.
“Still Life” è una di quelle opere rare in cui si parla di argomenti delicati, come la morte e l’addio a questo mondo (soffermandosi in particolar modo sul servizio funebre), con l’insolita prospettiva di coloro che se ne vanno in solitudine e senza famiglia, che ci ricordano l’importanza del rispetto per l’essere umano vivo, morto, emarginato o perfettamente integrato che sia. Insomma, una lezione di umanità che supera ogni barriera e i cui toni pacati lasciano più segni di una scazzottata.
Protagonista di questa storia è John May (un incredibile Eddie Marsan) il quale svolge un lavoro inusuale che lo porta a sviluppare una grande sensibilità, uno spiccato spirito di osservazione e un fiuto da vero segugio. John si occupa per la sua Contea di rintracciare eventuali familiari di chi perisce apparentemente in totale isolamento, abbandono, emarginazione. Non facendosi sfuggire alcun dettaglio, rispettoso di quanto lasciato dai defunti, attento a gusti e preferenze, John riesce sempre a dare a queste persone una degna sepoltura e non chiude mai un caso senza aver tentato anche l’ultima e poco probabile carta.
La crisi economica, però, rende il suo ufficio una spesa eccessiva e ben presto viene accorpato a quello di un donnone molto pratico e meno attento che lo invita a ricollocarsi, insomma, viene licenziato. A John non resta quindi che chiudere un ultimo caso prima di… darsi alla vita. E sarà proprio l’incontro con la famiglia di un vagabondo, che abitava nel suo stesso isolato, a segnare il suo futuro.
Pasolini racconta la quotidianità del suo personaggio, la sua routine, le sue manie e la sua rinascita, e nel mentre scatta una lucida fotografia dell’odierna società, delle moderne famiglie, dell’essere umano del nuovo millennio. Tutti sempre più cinici, soli e approssimativi, che sublimiamo con falsa concitazione ed effimera soddisfazione la mancanza di ciò che ci rende unici e migliori: l’umanità.
La bravura dell’autore sta nella chiarezza, nell’estrema delicatezza, nell’incredibile attenzione ai particolari (come l’attenta scelta di luce, fotografia, scenografia e costumi) e nell’aver diretto il protagonista in modo impeccabile. Marsan è impressionante nell’essere metodico, distaccato dal mondo, spaesato e nel ri-illuminarsi man mano che il finale si avvicina. Non ci stupisce quindi che l’opera abbia riscosso consensi ovunque sia approdata e che da Venezia 70 sia rincasata con un premio.
Voto: 7. Talvolta anche gli esordi dietro la macchina da presa possono essere veri gioielli. Da vedere!