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Recensione di Andrea Brancolini a “Moffie” di André Carl van der Merwe

Creato il 29 ottobre 2012 da Wsf

Recensione di Andrea Brancolini a “Moffie” di André Carl van der Merwe

Moffie, opera prima di Van der Merwe, racconta, come anticipa il sottotitolo “Un gay in guerra nel Sudafrica dell’apartheid”, la storia di un ragazzo gay che viene spedito dai propri genitori (per volontà del padre) a fare il servizio di leva nel Sudafrica degli anni ’80, in pieno apartheid, durante la guerra di confine sudafricana o guerra di indipendenza della Namibia. Il romanzo, miscuglio di biografia dell’autore e di fatti e persone solo immaginati, procede alternando il periodo pre-militare a quello del servizio sotto le armi. L’infanzia segnata dalla perdita dell’amato fratello, l’adolescenza e la scoperta di essere gay, i conflitti con il padre e con il suo ramo familiare, il diventare militare e la paura di essere scoperto, le amicizie e l’amore. Nicholas, questo il nome del protagonista e io narrante, ci fa dono del suo sguardo lungo il racconto e non evita niente al lettore, la guerra come il primo amore, l’imbarazzo come l’orgoglio, il sorriso come la disperazione. Ho riflettuto un po’ su come scriverne, e sono arrivato alla conclusione che mostrare qualcosa di ciò che il lettore affronterà sarebbe stata la soluzione migliore. Una sorta di intervista al romanzo in cui farò al libro delle domande e questi mi risponderà (credo)

Così, ecco cosa significa moffie direttamente dai genitori di Nicholas:

- E poi come puoi chiamare nostro figlio in quel modo? Dovresti vergognarti!

- Come?

- Lo sai a che mi riferisco, Peet.

- Ah, vuoi dire moffie?

- Appunto, la cosa più spregevole che si possa dire a qualcuno, figuriamoci poi a tuo figlio!

- Lo sai che intendevo dire.

- Che cosa volevi dire?

- Che è una femminuccia e non un maschio.

- Beh, dovresti pensarci meglio. Non voglio sentire quella parola in casa mia, mai più. Femminuccia basta e avanza.

- Beh, comunque è uno di quelli e spero davvero che sotto le armi glielo facciano passare a suon di frustate. Giuro davvero che ci ho provato, ma con lui mi ha detto male. (pag. 23 – 24)

Nel libro ci sono molti termini afrikaans, come moffie, appunto, ma alla fine c’è un prezioso glossario (in cui sono anche i termini gayle) che dirime le ovvie incomprensioni. Questo dialogo ci dice come il padre consideri Nich, ma cosa ne pensa il figlio?

- Ora vedrai come funziona davvero il mondo, ragazzo mio – mi dice. E poi, rivolgendosi a tutti:- Gli farà bene. È la cosa migliore per staccare i ragazzi dalle sottane delle mamme. Poppanti! Alla tua età io ero già un uomo.

Come si permette di parlare in questo modo? Ma che ne sa? Non ha mai fatto il militare. Questo è il suo governo, è quello in cui crede, che a me tocca andare a difendere. Sto andando a combattere in nome suo! Al pensiero mi si contorce lo stomaco. (pag. 23)

Il padre è un afrikaner duro e puro nei modi, uno di quelli casa e chiesa (riformata olandese), come quelli che governano il paese da nemmeno venti anni, all’epoca.

Appena tre anni prima, nel 1961, anno della mia nascita, il Sudafrica ha ottenuto l’indipendenza dall’Inghilterra diventando una repubblica; l’evento influenzerà la mia vita più di qualsiasi altro al mondo. Il nuovo governo è guidato da una minoranza di bianchi – per la stragrande maggioranza afrikaner, la gente di mio padre – e ci ha indirizzato su un tragico cammino; e tutto nel nome di Dio. (pag. 20)

Nel romanzo il bisogno di spiritualità del protagonista è evidente, come la sua ricerca di Dio, un Dio che non sia quello dell’esercito e della nazione che lo guida.

Il nostro cappellano, un dominee della Chiesa riformata olandese, ci ricorda durante i nostri momenti di aggregazione spirituale che stiamo combattendo nel nome di Cristo. Non un Cristo conciliatore, non un Cristo del perdono, ma un Cristo dell’assalto a colpi di fucile, un Cristo del massacro.

77529220BG fuciliere N. Van der Swart, gruppo sanguigno 0 positivo, addestrato ad ammazzare altri della sua specie, del suo fucile gli è stato detto: <<Impara a memoria la matricola: questa è tua moglie, la tua ragazza, la tua mamma: è la tua vita, perché senza, la vita smetti di averla>>. (pag. 128)

Sappiamo del padre, e della sua religione, mentre la madre è cattolica, è più dolce nei confronti del figlio e comprensiva, ma certo l’omosessualità non la considera cosa di cui andare fieri, tanto che Nicholas, a 15 anni, nel momento in cui si rende conto di essere gay e comprende cosa voglia dire questo per la società, medita disperatamente sulla sua condizione.

Non sono più in grado di fare pensieri logici. Non c’è più niente per cui valga la pena vivere. Sono gay e per me non c’è speranza, non c’è futuro, neppure nell’eternità; anzi, soprattutto nell’eternità. Le istituzioni mi chiedono di essere tutto quello che non sono. I miei genitori mi incoraggiano a essere tutto quello che non sono. Non vedo via d’uscita, non vedo felicità. Mi chiudo sempre di più in me stesso. Non c’è modo di scampare a tutto questo se non attraverso la mia eliminazione. Pianificare la propria morte è come aver ricevuto la chiave per una cella che si pensava senza porte. Sapere che c’è una via di fuga è più eccitante di qualsiasi altra cosa. (pag. 113)

Non è sempre così il romanzo, ci sono parti splendide dedicate alla natura, alla domestica nera di quando erano piccoli, al fratello perso in un incidente, ed ai primi momenti in cui si fa viva l’attrazione per le persone del suo stesso sesso.

Tra la folla, il cibo, gli asciugamani colorati e il chiasso eccitato dei bambini a bordo vasca, noto un uomo. Diventa l’attrazione della mia giornata. Ha da poco raggiunto l’età adulta, ed è un esemplare perfetto. Ogni parte di lui è compatta, i lineamenti precisi, la pelle liscia, abbronzata, tesa su una muscolatura che dimostra una chiara superiorità genetica; è al suo apice. È affascinante osservare una persona consapevole di essere bella e magnetica. (pag. 120)

E l’esercito, dove è stato mandato dal padre per diventare uomo, diviene occasione per diventare “un omosessuale consapevole”, come riporta la frase in quarta di copertina. Nicholas si nasconde, certo, ma riesce a trovare anche confidenti, col quale dividere il peso dell’essere, semplicemente, se stesso.

- Lo sai per me qual è stata la cosa peggiore di tutte? Non il fatto che li avessero pestati di brutto, ma quando sono stati portati alla mensa ed è calato il silenzio totale mentre loro erano lì in mezzo e qualcuno ha iniziato a dire in coro <<moffie, moffie, moffie>> e tutti gli altri gli sono andati dietro.

- Sì, me lo ricordo.

- Nick, ti giuro, non so se sopravviverei a quello. Sono orgoglioso di essere gay, ma non deve accadere per nessun motivo che qualcuno nell’esercito ci becchi, lo sai: è troppo pericoloso.

- No. Sai, per me la cosa più triste è che si sono lasciati. Voglio dire quello che ha tradito l’altro. […] Mi sono sempre sentito in colpa per non averlo potuto aiutare in qualche modo.

- Nick, ma che potevi fare? Diavolo, amico, meno male che non c’hai provato, altrimenti ti avrebbero sbattuto al reparto 22 insieme a loro, fottuto per la vita.

- Mi sento ancora un traditore. Non è patetico che siamo talmente abituati a vivere di sotterfugi e a nascondere i nostri sentimenti che ormai è diventata una seconda pelle? È che noi accettiamo il modo in cui ci trattano e basta. Merda, non abbiamo neppure idea di cosa voglia dire avere una relazione alla luce del sole con la persona che amiamo. Come quei vecchi che vivono una vita intera insieme come “grandi amici” senza mai venire allo scoperto, senza neppure dirlo ai propri genitori e alla famiglia. Lo sai, siamo perseguitati almeno quanto i neri in questo paese. Forse anche di più. Almeno non è illegale essere nero!

- Hai mai sperato di essere etero?

- Certo che sì. Pregavo per questo. (pag. 235)

Quello che accade, durante la lettura, è lo spostamento di prospettiva che si attua, spostamento che non va a cambiare le cose, che rimangono come sono, ma che cambia noi stessi, come dice l’io narrante

Le cose cambiano più per il modo in cui sono percepite che in se stesse. È questo che mi si chiarisce quando esco allo scoperto. (pag. 169)

C’è una guerra esterna ed una interna, e più il protagonista è immerso in quella fuori più scioglie i nodi di quella interiore. Tanto è duro e sconfortante l’ambiente intorno quanto cresce la forza dentro sé per andare avanti e lottare. Moffie è un romanzo teneramente duro, se si può definire così, che se descrive un contesto particolare come quello sudafricano tra gli anni ’60 e ’80 a me è sembrato anche e purtroppo vicino a certe posizioni odierne. D’altronde la paura di ciò che viene avvertito come “diverso” non cambia troppo i modi della sua manifestazione nel tempo. Un romanzo da leggere, con la consapevolezza di trovare pagine forti da digerire, che magari possono far venire voglia di interrompere la lettura, ma solo per un po’, perché ce ne sono altre che non va bene abbandonare.

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

André Carl van der MerweMoffie (Un gay in guerra nel Sudafrica dell’apartheid), trad.Valentina IacoponiIacobelli editore, Roma, 2012

André Carl van der Merwe è nato in Sudafrica, a Harrismith, nel Free State. Trasferitosi con la famiglia nella provincia del Capo, ha svolto i suoi studi a Welgemoed e poi a Stellenbosch. Assolti gli obblighi di leva nell’esercito sudafricano, è tornato a Cape Town dove ha studiato Belle Arti e ha fondato una casa di moda che ha gestito per oltre 15 anni. Oggi si occupa di architettura e arredamento, attività che alterna alla scrittura. Moffie è il suo primo romanzo.

Il sito dell’editore Iacobelli: qui.

La pagina del romanzo sul sito dell’editore: qui.

Una recensione di Antonella Finucci su flaneri.com

Articolo di Andrea Brancolini.

[articolo già apparso su Lankelot: http://www.lankelot.eu/%5D

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