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Recensione di I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni

Creato il 05 maggio 2014 da Leggere A Colori @leggereacolori

11 Flares 11 Flares × Recensione di I Promessi Sposi di Alessandro ManzoniI Promessi Sposi Alessandro Manzoni
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Data pubblicazione in Italia:
Formato:
Collana:I libri dello spirito cristiano
Genere:Romanzo Storico
Pagine:
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La trama:

Romanzo storico per antonomasia, il primo della letteratura italiana, si impone nel panorama europeo e diventa subito un capolavoro: la più famosa opera di Alessandro Manzoni, in quattro redazioni dal 1819 al 1840 . La vicenda si snoda in 38 capitoli ed è ambientata a Licate, paesino in provincia di Lecco. Qui abitano Renzo e Lucia, i promessi sposi, al cui matrimonio si oppone don Rodrigo, per un capriccio e una scommessa fatta col cugino don Attilio.

I Promessi Sposi si apre il 7 novembre del 1628 e abbraccia circa due anni della storia italiana sotto la dominazione spagnola, mentre impazzano carestia e peste. Aiutante degli sposi è padre Cristoforo, del convento di Pescarenico. Personaggi di spicco sono: Geltrude, la Monaca di Monza, che ospiterà nel suo monastero Lucia; l’Innominato, che farà rapire Lucia e si convertirà al cospetto del Cardinale Federico Borromeo; il conte Attilio, cugino di don Rodrigo, ribelle e provocatore; l’avvocato Azzecarbugli, presso cui si recherà Renzo in cerca di giustizia, trovando invece un uomo colluso con potere dei signorotti; Agnese, madre di Lucia, donna buona ma poco avveduta, cattiva consigliera; don Abbondio, che, spinto dai bravi, si rifiuta celebrare le nozze; Perpetua (nomen omen) che vive con don Abbondio, donna pettegola e paesana; donna Prassede, conformista e piena di pregiudizi, che ospiterà Lucia, dopo la conversione dell’Innominato, don Ferrante, noto per la sua biblioteca e alcuni altri di minor spicco, anch’essi però finemente caratterizzati.

La storia, dopo un plot molto articolato, con analessi, celeberrime digressioni dell’autore, si conclude col matrimonio dei due, mentre la maggioranza dei personaggi muore di peste, tra cui anche padre Cristoforo (il Bene) e don Rodrigo ( il Male).

Il romanzo I Promessi Sposi è una sorta di manifesto letterario della cultura romantica europea, perché in esso ritroviamo tutte le peculiarità di questo movimento letterario: religione, nazionalismo, folckore, pubblico borghese, amore, cuore,indagine psicologica, lotta tra il Bene e il Male, provvidenzialismo filosofico…Celebri sono le sue descrizioni geografiche: del lago di Como, che fa da incipit al romanzo, del percorso a piedi di padre Cristoforo da Pescarenico a Licate, con una natura autunnale che riflette lo stato pensoso del frate. In queste si esprime tutto il sentimento romantico dell’autore, che pone l’elemento Natura al centro della sua riflessione, una Natura buona, purtroppo sconvolta dalla cattiveria degli uomini, una Natura romanticamente specchio del sentire dei personaggi, mentre don Abbondio, uomo vile e insensibile, non entra in sintonia con essa, dimostrando così la sua grettezza d’animo.

Nei capp. XI- XII viene presentata Milano nel momento del tumulto del popolo che si solleva contro i fornai; in questo contesto arriva il contadinotto Renzo, che rimane coinvolto inconsapevolmente nella rivolta fino a rischiare la prigione:“Renzo rimase stupefatto e edificato della buona maniera de’ cittadini verso la gente di campagna; e non sapeva ch’era un giorno fuor dell’ordinario, un giorno in cui le cappe s’inchinavano ai farsetti. Fece la strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l’immagini che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una casuccia per i gabellini. I bastioni scendevano in pendìo irregolare, e il terreno era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a caso. La strada che s’apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la divideva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango, secondo la stagione. Al punto dov’era, e dov’è tuttora quella viuzza chiamata di Borghetto, il fossatello si perdeva in una fogna. Lì c’era una colonna, con sopra una croce, detta di san Dionigi: a destra e a sinistra, erano orti cinti di siepe e, ad intervalli, casucce, abitate per lo più da lavandai. Renzo entra, passa; nessuno de’ gabellini gli bada: cosa che gli parve strana, giacché, da que’ pochi del suo paese che potevan vantarsi d’essere stati a Milano, aveva sentito raccontar cose grosse de’ frugamenti e dell’interrogazioni a cui venivan sottoposti quelli che arrivavan dalla campagna. La strada era deserta, dimodoché, se non avesse sentito un ronzìo lontano che indicava un gran movimento, gli sarebbe parso d’entrare in una città disabitata. Andando avanti, senza saper cosa si pensare, vide per terra certe strisce bianche e soffici, come di neve; ma neve non poteva essere; che non viene a strisce, né, per il solito, in quella stagione. Si chinò sur una di quelle, guardò, toccò, e trovò ch’era farina. «Grand’abbondanza», disse tra sé, «ci dev’essere in Milano, se straziano in questa maniera la grazia di Dio. Ci davan poi ad intendere che la carestia è per tutto. Ecco come fanno, per tener quieta la povera gente di campagna». Ma, dopo pochi altri passi, arrivato a fianco della colonna, vide, appiè di quella, qualcosa di più strano; vide sugli scalini del piedestallo certe cose sparse, che certamente non eran ciottoli, e se fossero state sul banco d’un fornaio, non si sarebbe esitato un momento a chiamarli pani. Ma Renzo non ardiva creder così presto a’ suoi occhi; perché, diamine! non era luogo da pani quello. «Vediamo un po’ che affare è questo», disse ancora tra sé; andò verso la colonna, si chinò, ne raccolse uno: era veramente un pan tondo, bianchissimo, di quelli che Renzo non era solito mangiarne che nelle solennità. – È pane davvero! – disse ad alta voce; tanta era la sua maraviglia: – così lo seminano in questo paese? in quest’anno? e non si scomodano neppure per raccoglierlo, quando cade? Che sia il paese di cuccagna questo? – Dopo dieci miglia di strada, all’aria fresca della mattina, quel pane, insieme con la maraviglia, gli risvegliò l’appetito. «Lo piglio?» deliberava tra sé: «poh! l’hanno lasciato qui alla discrezion de’ cani; tant’è che ne goda anche un cristiano. Alla fine, se comparisce il padrone, glielo pagherò».

Ben caratterizzati i protagonisti: Lucia, donna devota con poche idee ma chiare, Renzo, baldanzoso ventenne giovinotto, pieno di entusiasmi giovanili, ma un po’ ingenuotto, subirà una profonda trasformazione interiore a contatto con eventi più grandi di lui. Padre Cristoforo, che porta tutti i segni del suo travaglio interiore, l’Innominato con la sua conversione nella celebre notte. Geltrude, un caso di monacazione forzata, con tutta la sofferenza connessa. Fortissimo è l’amor di patria e la denuncia sociale in un’ opera di alto impegno civile e morale di un autore che, pur permeato dal pessimismo storico, si rifugia in una Fede profondissima: il Male domina la Storia, ma ad esso si può contrapporre quel po’ di Bene che possiamo, se riponiamo fiducia in Dio e nella Provvidenza, che guida le vicenda umane garantendo un lieto fine al romanzo.



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