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Recensione di Infinite Jest di David Foster Wallace

Creato il 11 ottobre 2014 da Leggere A Colori @leggereacolori

22 Flares 22 Flares × Recensione di Infinite Jest di David Foster WallaceVoto:
Informazioni sul libro
Titolo: Infinite JestDavid Foster Wallace
Pubblicato da:Einaudi
Collana:Einaudi. Stile libero big
Genere:Narrativa Contemporanea
Formato e pagine:
Social:Goodreads
Disponibile su:
in offerta
scontato
Trama:

In un futuro non troppo remoto e che somiglia in modo preoccupante al nostro presente, la merce, l'intrattenimento e la pubblicità hanno ormai occupato anche gli interstizi della vita quotidiana. Il Canada e gli Stati Uniti sono una sola supernazione chiamata ONAN, il Quebec insegue l'indipendenza attraverso il terrorismo, ci si droga per non morire, di noia e disperazione.


Non è facile scrivere di Infinite Jest (1996) di David Foster Wallace, inutile nascondersi: questo è un libro che ti trascina dentro qualche cosa che tu non capisci bene cos’è, avverti solo un crescente e costante malessere psico emotivo. La storia è ridondante e ripetitiva nel cliché di far passare il lettore sotto svariati Tir di sangue e di deviazioni che hanno poco di sano anche perché originano perlopiù dal tessuto familiare. Quasi una continua sfida a leggere altro, si potrebbe pensare, e perciò la prima domanda a cui rispondere è se ne è valsa la pena, di leggere questo libro, ma la risposta sta nelle cose, perché non la completi per caso, questa lettura, che ti deve piacere, in qualche modo; si riproduce uno schema che era abbozzato già nella “Scopa del sistema“, ossia una traccia ma forse più di una, di mistero, che fa da sfondo alle molteplici vicende narrate, ma che poi sfuma e si perde, assolvendo all’ingrato compito di tenere in qualche modo incollato l’ignaro lettore ad un epilogo che non avrà mai; ed è questo il primo scherzo in assoluto dell’autore, che ammicca spesso al lettore, ma a cui sembra rendere volontariamente la vita difficile, con la costruzione di periodi contorti, lunghissimi, incandescenti, mai troppo aulici e stilisticamente pregevoli, perché l’attenzione non sembra dirigersi in questa direzione, ma a volte davvero coinvolgenti; un lettore cui l’autore parla, talvolta in prima persona, usando con disinvoltura le note ed abbondando con nozioni tecniche sia di tipo medico/farmacologico che su droghe e sostanze di varia provenienza e natura, insomma ciò che normalmente non si ritiene affatto commerciale; ma anche tutti questi contenuti specialistici, anche in materia di “cartucce”, non si capisce bene se siano in realtà una vera e propria sfida al lettore, che rischia di perdersi nel nozionismo esasperato del testo, e quindi di non vedere mai la fine di questo libro, che anche tra le note presenta ulteriori racconti a parte e veri e propri passaggi salienti dell’intera traccia sparsa tra una tragedia umana ed una risata amena. E già questa è una idea rocambolesca del rapporto tra autore e lettore che la dice lunga sui contenuti innovativi del romanzo, che però vanno afferrati dal lettore, quasi chiamato ad uscire fuori dal letargo emotivo in cui si cala nel momento in cui si pone sul lato passivo del tavolo della vita, tema, anche questo, che acquista una sua indubbia centralità, nel rapporto con la TV e la dipendenza dal cd. intrattenimento, pressappoco come l’immagine diabolica di Avril quando entra in una stanza, ponendosi al centro ma proprio al centro dell’attenzione visiva.

Il tessuto narrativo si snoda, quindi, su un calibrato bombardamento cui è sottoposto il (malcapitato) lettore, con una serie di storie a sfondo macabro, con ritagli di infelicità e pura sofferenza a go go. Tutti in IJ hanno alle spalle una storia orribile, pure il postino che porta le lettere od il cane che fa la pipì per la strada (prima di essere sgozzato da uno che ci aveva qualche problema in più di dipendenza e che tu sei portato a pensare tra un po’ sgozzi l’amico che passeggia con lui perché non ce la fa più e non trova un gatto o un cane e nemmeno un canarino da ammazzare), e quindi dovresti sentirti molto meglio, alla fine del libro, e subito uscire a prendere una boccata d’aria, per dire: che bello il mio mondo è tutta un’altra cosa; eppure, l’altro scherzo che ti rifila di soppiatto l’autore tra una vicenda macabra e l’altra e diverse molte risate di mezzo ed un’altra storia ancora peggio di quella di prima è che quando lo lasci, il libro, sembri esserti impregnato di qualche cosa di sottile, qualche materiale invisibile all’occhio umano, che gravitava nascosto da qualche parte, un distillato di amarezza e di tristezza fabbricato lì negli USA, impacchettato e servito tra le pieghe del libro per farti riflettere sui limiti e sulla pochezza della condizione umana.

Approfondimento

L’unico problema narrativo serio che si fa largo sembra quello di cementarle, in qualche modo, queste storielle dell’horror, dandogli il sapore di una unità narrativa non frammentaria ma coerente. Queste storie di miserie umane, in IJ, pur coinvolgendoti, sono però ripetitive ed a senso unico; si racconta di una realtà che alla fine non è troppo varia, come i vari personaggi alle prese con le varie e fottutissime dipendenze, come i ragazzi della Enfield Tennis Academy, che pare nemmeno le fighette gli interessino più di tanto all’età in cui gli ormoni dovrebbero schizzare fuori dalle orbite; ragazzi, questi, fatti con lo stampino, che si muovono su di un piano cerebrale troppo spinto per la loro età e condizione di anelli di ingranaggio del celodurismo americano accentuato e depresso dei ns. giorni; e, del resto, non c’è bisogno di marcare troppo i caratteri, in Infinite Jest, perché tutto è così troppo forte che se anche l’autore l’avesse portata avanti, questa operazione, forse il lettore nemmeno se ne sarebbe accorto, immerso nel pensiero della sofferenza che aveva appena sfiorato tra le varie righe buttate lì a macchia di leopardo nei vari capitoli del tempo sponsorizzato. Questi ragazzi e questa competizione sono lì proprio al centro del sogno americano, ed il tennis, quel tennis, praticato in quel modo, sembra proprio la metafora di una società che poi spinge inevitabilmente alle dipendenze, poiché c’è chi non ce la fa perché non sono mica tutti John Wayne (il tennista più bravo dell’accademia, ma quasi un robot autoprogrammato); quindi la Hennet house e la casa di recupero per le dipendenze e la scuola di tennis sono collocate molto vicino, in una sorta di comunione di fini e di ruoli, l’una crea i mostri anedonici e l’altra cerca di salvare il salvabile in una sorta di passaggio del testimone il cui filo di congiunzione, nella storia, è Joelle vanne Dyne, la donna più bella di tutti i tempi, cazzutissima Madame Psychosis, e, comunque, inesorabilmente segnata dal suo dramma familiare con tanto di ricordino indelebile sul viso, forse meno opprimente del fatto di essere entrata a pieno titolo negli ingranaggi della incredibile filmografia di Lui in persona, sino a divenire la protagonista del samizdat.

Ma è come nei film d’azione americani, in cui il gigantismo è così esagerato che alla fine la storia cancella le identità, nel libro si sente tutta questa prevalenza di caratteri e protagonisti neutri, che davvero non sai dire se è buono, cattivo (la figura di Gately, come la sua storia, non mi sembra assurga una adeguata centralità nel libro, che comunque ruota intorno alla famiglia Incadenza), o che funzione abbia nel contesto narrativo, ed è così, peraltro, che questo libro alla fine prende anche alcune forme associabili al peggio del trash dei ns. giorni; l’autore non rifugge da tutto ciò; lui vuole tenere incollato il lettore ad ogni costo, descrivendoci sapientemente rapporti insani e sadici, ci sbatte in faccia non solo la sodomia ma anche la brutalità della paura da contagio che accompagna questo genere di rapporti, figli che vanno con le madri, dozzine di prototipi umani a dir poco abominevoli, stavolta in senso meno surreale rispetto alla traccia della “Scopa del sistema“. Certo il libro fa anche fare grosse risate, come nella gustosissima scena con Gately allettato in ospedale e la mega infermiera alle prese con le esigenze fisiologiche del suo ano. Confesso che leggendo questa scena il pensiero è volato al ben più rassicurante faccino di Renzo Montagnani alle prese con le rotondità di una delle tante attricette nostrane, e lì si mi è chiuso un personale cerchio di metabolizzazione di una realtà che non fa nulla per allontanarsi da tutto questo trash, pur contenendo il libro interessantissimi spunti sul rapporto tra l’intrattenimento televisivo e la dipendenza passiva di chi lo fruisce, lo spettacolo. A dire il vero di spunti il libro ne offre a iosa; anche la stessa grande concavità offre una buona idea di quella che di fatto è diventata la mia terra, la Campania felix (una volta), e quindi potremmo parlarne all’infinito, di questo libro, che di sicuro ti tocca per la sua originalità, ma che nemmeno deve, secondo me, far salire troppo l’asticella delle attese; il mondo che è dato in pasto ai lettori da DF Wallace è deprimente e triste e pone forse una inquietante ombra sulle stesse prospettive del genere umano, ma non (solo) per questo il libro può dirsi un capolavoro: si ha la sensazione di una girandola che si muove vorticosamente instillando toni bui, togliendo colore alle cose, ma che ad un certo punto si ferma senza un motivo apparente ed un senso compiuto, lasciandoti in mano qualcosa che non ha esaurito alcun discorso, qualcosa che non è compiuto, un bellissimo esperimento letterario.

Chiudiamo, inevitabilmente, con la reale traccia del libro, ovvero i fatti della famiglia Incandenza, certamente molto ai confini della realtà. Ho cercato invano un mio personaggio positivo cui affezionarmi, tra divertenti strategie di conquista femminile, teste cotte a puntino nel forno a microonde, figli che vanno con mamme senza un filo palpabile di umanità, mamme che ci fanno ripensare con inaspettato piacere a quelle donne nostrane che non ci hanno mai nascosto tutta la loro ansia fino a sfinirci con i consigli che già sappiamo anche perché tra un po’ andiamo pure in pensione (anzi no: che adesso c’è una nuova riforma); mamme con un che di pauroso di diabolico, forse proprio perché inespresso sul sorriso incollato di una sfinge; le chiusure di Hal; le deformità fisiche di Mario; C.T. che quando avanza sembra farsi ancora più piccolo. Non ho trovato grandi risposte, di sicuro la vicenda di Hal, il suo disinteresse per la vita e per gli altri (povero Tenebra…lasciato con la testa attaccata al vetro), per la partecipazione attiva a qualche cosa, la sua incomunicabilità con Lui in persona, sono temi che evocano uno spettro che avanza in una società sempre più colta e scolarizzata e con la pancia piena e l’intrattenimento a portata di mano (= passività cieca e subdola), ma qui finiremmo ancora una volta a parlare della triste fine dell’autore, inspiegabile per uno brillante, spiritoso, eccentrico, forse troppo poco proiettato nella concretezza, come i suoi personaggi.

Antonio Mastroberti



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