Ho esitato un poco prima di scrivere la recensione dell'ultimo disco solista di Paolo Angeli. Ho esitato perché ho avvertito la necessità di una pausa di riflessione e di meditazione. In questi ultimi anni ho ascoltato praticamente ogni nota che Paolo ha "congelato" su un supporto fonografico, ho seguito con attenzione la sua intensa attività, ho letto il suo libro dedicato alla chitarra sarda, l'ho anche intervistato per un mio libro.Prima di scrivere queste note ho deciso quindi di riascoltare la sua produzione musicale passata cominciando dal suo Linee di Fuga del 1998 (sembra sia passato un secolo), passando per "Nita l'angelo del trapezio" del 2005, il monumentale "Tessuti" del 2007, "Tibi" del 2010 (che in un certo senso chiudeva e confermava un ciclo creativo intenso ma che dava qualche segnale di esaurimento, poi 4 anni di silenzio fino a "Sale Quanto Basta" dell'anno scorso che riapriva le rotte navali di Paolo spostando il suo sestante sul flamenco, sul Mediterraneo, su una maggiore solarità. In mezzo tante collaborazioni, diversi dischi in duo e in trio, tutti segnali di una intensa attività esplorativa a 360 gradi, di un desiderio di nuove esperienze, di una grande giocosità e vitale intensità, un calderone da cui è uscito Sale Quanto Basta, un lavoro caratterizzato da una grande energia. La stessa che si avverte all'inizio di un viaggio quando l'adrenalina e l'eccitazione sono alle stelle mentre gli occhi scrutano in lontananza e la mente gioca cercando di immaginare le esperienze che presto saranno vissute e ciò che si incontrerà.Poi il viaggio inizia, si registrano i primi incontri, le prime impressioni... si prende atto delle difficoltà, si definiscono le distanze, il processo creativo si focalizza, diventa più intenso, forse meno carico di energia, ma più raffinato e espressivo.Credo sia questo il messaggio di SU, un segnale semplice ma diretto da parte di un musicista (scrivo espressamente musicista e non chitarrista, perché ritengo che Paolo abbia da tempo superato i limiti tecnici e tonali della sei corde) che è sempre alla perenne ricerca di qualcosa di nuovo, di impegnativo e di esaltante.Spesso nella nostra epoca si insiste nel richiedere a gran voce una nuova rivoluzione, il cambiamento epocale mediatico, la cancellazione delle tradizioni e delle consuetudini per poi toccare con mano che nessuno è più conservatore del reazionario, più figurativo dell'iconoclasta, più pericoloso del crociato.Paolo è un musicista che ha da tempo intrapreso un percorso assolutamente personale e contro corrente, un sentiero che è a mio avviso (è una mia personalissima opinione) la perfetta antitesi da ciò che mediatica-mente ci si potrebbe aspettare da un rivoluzionario. Non c'è una rivoluzione nel modo di suonare di Paolo, ma una continua, lenta, costante evoluzione. Il suo stesso strumento ne è una testimonianza: non è nato così, non è uno strumento compiuto è definito, è un continuo cantiere in perenne aggiornamento. Non credo che ci possa aspettare qualcosa di diverso da Paolo: un continuo cambiamento in cui però, per chi lo segue da tempo, non è difficile rintracciare alcuni riferimenti fondamentali che da tempo "marchiano" la sua musica: la sardegna, il flamenco, l'improvvisazione radicale degli anni '70, la fusion di Metheny, un certo gusto pop raffinato, la sua ironica vena radicale di fondo. E poi la musica, quella sempre, fatta col cuore mirando dritto alle emozioni.
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