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Recensione di Sotto un cielo indifferente di Vasken Berberian

Creato il 15 luglio 2014 da Leggere A Colori @leggereacolori

65 Flares 65 Flares × Recensione di Sotto un cielo indifferente di Vasken BerberianSotto un cielo indifferenteVasken Berberian
Pubblicato daSperling & Kupfer
Data pubblicazione in Italia:
Formato:
Collana: Pandora
Genere:Narrativa Contemporanea
Pagine:
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La trama:

Mikael, Gabriel e Novart, nomi appartenenti a tre persone diversissime eppure profondamente legate dal legame di sangue che li unisce, nonostante il destino abbia in serbo per loro sorprese e avvenimenti che li porteranno ad allontanarsi, a dimenticarsi l’un l’altro o a riavvicinarsi. Sotto quel cielo indifferente che dà il titolo al libro e che li comprende e unisce tutti quanti.

Ci ho messo molto a decidermi di scrivere la recensione di Sotto un cielo indifferente. È stato un viaggio tosto, alcune scene, alcune descrizioni mi hanno fatto stare male. Mi è sembrato di essere in simbiosi ai due gemelli Mikael e Gabriel, di vivere le loro vite e le loro emozioni, le loro difficoltà. Di essere l’altra gemella. Di Novart, vi metterò a conoscenza dopo… ma procediamo con ordine… I due bambini nascono nel campo profughi armeno nel 1937, in un periodo durissimo, tra miseria e malattie, ma circondati dall’amore dei genitori che fanno tutto il possibile per vivere dignitosamente in attesa che le condizioni migliorino. Purtroppo, però, nel campo si diffonde la malaria e Satèn, la madre di Mikael e Gabriel, si ammala. Serop, il loro padre è disperato: non hanno più un soldo e la moglie potrebbe morire da un momento all’altro. Un amico gli propone, allora, di vendere uno dei bambini a una coppia benestante di Atene: potrebbe così salvare l’intera famiglia dalla fame e dalla malattia. Seròp deve prendere la decisione più difficile della propria vita e, a malincuore, decide di dare via Mikael, il gemello con il quale ha meno feeling. Gabriel – il più pacifico- lo tiene con sé. Da qui in poi i cammini dei due fratelli si dividono ma, paradossalmente restano profondamente uniti, procedendo in parallelo come binari del treno.

Vasken Berberian, l’autore del libro, deve aver avuto in mente ciò che si dice dei fratelli gemelli, in altre parole che vivono in simbiosi e che, anche lontani, possono “sentirsi” a vicenda. Vivere l’uno le gioie e i dolori dell’altro. Così ritroviamo Mikael quindicenne, in un collegio gestito da religiosi armeni, in preda a strane angosce e visioni: vede un altro se stesso in mezzo al freddo e alla neve, sente un dolore e una rabbia sorda inspiegabili. Pensa di essere pazzo. Non sa di Gabriel che invece è in un gulag, deportato a causa di un libro di Saroyan gelosamente custodito in casa e bollato come “nemico del regime” staliniano. Entrambi i ragazzi sono, ciascuno a modo loro, sottoposti a regole ferree e a duri trattamenti, ma a Gabriel va notevolmente peggio. Vive la vita più dura, le sofferenze più atroci, conosce l’odio più profondo e abissale. La morte è costante compagna di quest’adolescente che, comunque continua a tenere duro e a sperare grazie all’amore di una giovane deportata come lui e al pensiero di Novart, la sua sorellina rimasta con la madre, salvata dalla deportazione. E Mikael vive di riflesso tutto questo. Vive il paradosso di una vita materiale appagante, ma di un inferno interiore. Uniti e divisi. Profondamente legati eppure estranei.

Così lungo tutto il romanzo, fino a che troviamo Novart ormai trentenne, negli Stati Uniti, con un nuovo nome e una nuova vita. E’ un’imprenditrice nota nella comunità armena americana e, durante una serata di beneficenza, conosce un altro armeno, un filosofo che vive in Italia, il cui nome è Mikael. Non sanno di essere legati, ma lo scopriranno presto, grazie ad una vecchia fotografia. E per Mikael tutto diventa finalmente chiaro e insieme a Novart decide di andare a cercare il fratello che hanno in comune. Contro ogni probabilità, decidono di andare a cercarlo, di scoprire cosa ne è di lui. . Al loro arrivo, ad aspettarli c’è un uomo il cui volto è stato sfigurato dal fuoco una trentina di anni prima. Sembra particolarmente interessato a loro, sebbene sia molto riservato riguardo al proprio vissuto. Racconta il necessario; chi è stato e cosa ha vissuto ormai non conta. Non vuole riaprire vecchie ferite. Non vuole dire agli altri due che lui, una vita fa, si chiamava Gabriel e aveva una sorella e un gemello. Forse perché quel ragazzo morì metaforicamente nell’incendio della nave su cui si trovava, straziato più dal dolore che dalle fiamme.

Nonostante ciò quei tre vivono momenti di profonda comunione e, grazie alla bravura dell’autore, nel non detto, nel non raccontato il lettore capisce comunque che i protagonisti sanno tutto quanto, consciamente o meno. Ciò è reso perfettamente in una delle scene che preferisco: i tre si fermano a guardare una triade di scogli chiamati “Bratja”, i fratelli. Restano lì per un po’, commossi. Non dicono nulla. Osservano con una misteriosa sensazione nel petto e dopo quel momento Novart e Mikael decidono che la loro ricerca è finita. Il romanzo termina con la nuova separazione dei personaggi, stavolta non per mano del destino, ma in seguito alla loro decisione consapevole. Una metaforica rivincita, sotto quello che è davvero un cielo indifferente, che fa risplendere la propria luce senza distinzione alcuna su chi fa il bene e chi il male, sui vincitori e sui vinti e su Mikael, Novart e Gabriel, fratelli, uomini e donne forti e coraggiosi che, nonostante tutto, continuano a vivere. Il libro non è di quelli da “ombrellone” e lo consiglio a coloro che amano le storie forti, avvincenti e ben scritte. Il mio voto? 4 stelle.

Mariateresa Della Chiesa



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