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Titolo: Doctor Sleep Autore: Stephen King Editore: Sperling & Kupfer Numero di pagine: 517 Prezzo: € 19,90 Sinossi: Perseguitato dalle visioni provocate dallo shining, la luccicanza, il dono maledetto con il quale è nato, e dai fantasmi dei vecchi ospiti dell'Overlook Hotel dove ha trascorso un terribile inverno da bambino, Dan ha continuato a vagabondare per decenni. Una disperata vita on the road per liberarsi da un'eredità paterna fatta di alcolismo, violenza e depressione. Oggi, finalmente, è riuscito a mettere radici in una piccola città del New Hampshire, dove ha trovato un gruppo di amici in grado di aiutarlo e un lavoro nell'ospizio in cui quel che resta della sua luccicanza regala agli anziani pazienti l'indispensabile conforto finale. Aiutato da un gatto capace di prevedere il futuro, Torrance diventa Doctor Sleep, il Dottor Sonno. Poi Dan incontra l'evanescente Abra Stone, il cui incredibile dono, la luccicanza più abbagliante di tutti i tempi, riporta in vita i demoni di Dan e lo spinge a ingaggiare una poderosa battaglia per salvare l'esistenza e l'anima della ragazzina. Sulle superstrade d'America, infatti, i membri del Vero Nodo viaggiano in cerca di cibo. Hanno un aspetto inoffensivo: non più giovani, indossano abiti dimessi e sono perennemente in viaggio sui loro camper scassati. Ma come intuisce Dan Torrance, e come imparerà presto a sue spese la piccola Abra, si tratta in realtà di esseri quasi immortali che si nutrono proprio del calore dello shining. La recensione “Era buono, ma anche cattivo, e gli volevo bene per quel che era. Che dio mi perdoni, gliene voglio ancora. Succede alla maggior parte dei bambini. Ami i tuoi genitori e incroci le dita. Che scelta hai?”. Si sa. Si sa che, almeno una volta all'anno, ho bisogno di lui: ci penso, come un alcolizzato fa con la bottiglia, nei suoi momenti d'oblio più neri. In realtà, lui mi aiuta nell'impresa diametralmente opposta: disintossicarmi. Mi racconta brutte storie in maniera meravigliosa. Cosa che nessuno fa. Perché lui è artefice di cose che nessuno fa. E' il miglior narratore che ci sia. Narratore - figura, quest'ultima, che, al pari dell'artigiano o del ciabattino, non esiste più, o quasi. Sono specie in via di estinzione. Maghi in incognito. Prestigiatori che, dal cappello a cilindro, tirano fuori, a colpo sicuro, capolavori su capolavori. Mangiano cibo salutare, respirano aria buona, si circondano di bella gente, hanno piccoli cottage come ufficio. Magari, tutti lì, nel Maine. Lui è il Re e io sono un suo fedele suddito: lo venero. A volte, in sua presenza, posso semplicemente perdere la mia oggettività: risaputo anche quello, no? Si sapeva, allora, che Doctor Sleep mi sarebbe piaciuto. Stephen King crea misteri, infatti, ma i suoi libri non fanno altrettanto. Si leggono così, amandoli senza mistero alcuno e senza capacità momentanea di raziocinio. Alla fine prevale il ricordo, nel mio caso, almeno, di ciò che ha rappresentato e - sovrana incontrastata - regna la più pura ammirazione. Qualcosa che assomiglia vagamente alla felicità, a una pace senza pace. Cosa strana... ma io sono strano, quindi c'è una certa coerenza di fondo. Quando leggo qualcosa di suo, non smetto mai di pensare a quel piccolo lettore che, un decennio fa, muoveva i suoi primi e cauti passi in un'immensa libreria piena delle sue immense storie. I libri stupidi li leggo adesso: da bambino, mi trattavo bene. Andavo a casa della migliore amica di mio fratello e sua madre, con un tascabile in una mano e una sigaretta nell'altra, mi proponeva sempre il meglio: solo Stephen King, passando – giusto ogni tanto – per il primo Dean Koontz. Spiando dal basso ripiani che nemmeno riuscivo a raggiungere, curiosavo, senza meta e fretta, tra dorsi rilegati che mi parlavano di macchine infernali, cimiteri viventi e sguardi che uccidono facendo furore, fuoco e fiamme. E' stato allora, in quel salotto pieno di carta e di fumo, in quella vita, che ho letto Shining. La legittima proprietaria mi aveva avvertito: quella volta, l'amante dei lieto fine che era in me, non sarebbe stato accontentato. Chissà a quel bambino come sarebbe parso, allora, questo Doctor Sleep? Ho pensato questo, leggendolo, e mi sono detto che quel bambino che, da qualche parte, vive ancora in me l'avrebbe apprezzato, molto. Più o meno, ho fatto altrettanto anch'io. Il precedente, Joyland, era un'opera piccola con una grande maturità. Questa volta, stranamente, siamo al cospetto di un'opera grande sicuramente di più, ma dal retrogusto più acerbo. Una specie di scritto di gioventù. Di quelli dell'epoca d'ora, dell'Atlantide perduta, dell'El Dorado leggendaria, in cui Stephen si divertiva ancora a giocare coi mostri, il soprannaturale, il trenino degli orrori. Il meno è perché, per quanto mi sia piaciuto, c'è un non so che di anacronistico: si sente che Doctor Sleep è arrivato tardi, seppure non troppo, alla “splendida festa di morte” iniziata ormai un trentennio fa. Un King anziano che scrive una storia nelle corde del King giovane. Una lotta contro il tempo, un viaggio nel tempo, i cui round e le cui tappe sono scandite in maniera leggermente più studiata e macchinosa del solito. Si guarda il cielo – ora ci sono le foglie d'autunno, ora la neve, ora la cenere di una catastrofe – e si ci affida, a volte, a qualche eroe per caso, a un deux ex machina sceso dall'alto che tiri le redini, a un colpo di fortuna. Sempre che la sorte, cieca, riesca a trovarci, in un'America che ha mille insidie e mille volti. Sempre che la sorte esista, concreta come esistono, invece, i nostri mostri. Qualche difetto c'è, ma il lettore finisce per limare di suo anche quello che non va. Il lettore, io. Arrivo ai ringraziamenti finali, vedo il profilo della persona che si nasconde dentro e dietro tutto questo e perdono il poco che c'è da perdonare. Perché, in questo 2014 appena iniziato, con ogni probabilità, Doctor Sleep rimarrà una delle storie meglio narrate in assoluto, anche se non necessariamente uno dei romanzi migliori. Vedo, infatti, che, nelle ultime righe, parla dei figli di cui va orgoglioso, dell'amata moglie Tabitha, degli amici di sempre e, oltre che a un grande scrittore, penso a un uomo che ha vissuto una grande vita: uno di quei nonnetti burberi, ma segretamente teneri, che, come passatempo, sfogliano album di ricordi sul viale del tramonto. Io ho sfogliato un po' i miei, lui ha sfogliato i suoi. Doctor Sleep è una di quelle storie che parlano al passato: a quello di King, a quello di chi gli è sinceramente affezionato. Una foto ingiallita sfuggita dal mazzo. Lui è diventato un tenerone, io sono diventato un tenerone. Lo siamo diventati entrambi. Perciò, aspettatevi una storia di indicibile violenza e inclassificabile dolcezza: una storia sull'infanzia, le eredità e altri demoni. Quella del piccolo Torrance, d'infanzia, l'abbiamo conosciuta in Shining. Kubrick o King, film o libro, cambia poco: il primo finisce nel gelo, il secondo nel fuoco di una caldaia esplosa, ma per Danny non c'è pace comunque. Sopravvivere è una cosa, vivere ne è un'altra. Come può farlo, lui che ha visto il padre impazzire, l'Overlook bruciare fino alle fondamenta, la madre spegnersi fino a sparire, in nugolo di mosche in volo sul cattivo odore di antichi incubi e rinnovati deliri. Non può, ma l'alcol aiuta: fare a botte, andare a letto con totali sconosciute, tirarsi giù dal letto e aggrapparsi alla tazza del water – per vomitare, vomitare e vomitare, fino a perdere l'anima – aiuta a non sentire le cose che il buio gli sussurra. Era il segreto di Jack Torrance, e certe cose si tramandano nel sangue. I primi capitoli hanno un elevato tasso alcolemico nell'inchiostro; creano un disorientamento che è una piacevole ebbrezza. Ad ogni pagina, non sai esattamente dove ti troverai. Con chi, con cosa. E in che anno. Danny diventa Dan, in un altro Stato nasce Abra. Il primo, ormai adulto, è un uomo che tardi ha imparato a confessare agli altri le sue debolezze: gli Alcolisti Anonimi l'hanno condotto in salvo. L'altra, invece, ha imparato a pensare nella testa di Dan ancor prima di parlare: bambina silenziosissima, prima di svegliarsi in lacrime nel cuore della notte, con il peso di un presentimento che, neonata, non può condividere a parole con gli affettuosi genitori e una curiosa bisnonna d'origini italiane. Ha pianto nella sua culla, ha urlato con tutta la furia contenuta nei suoi minuscoli polmoni, ma l'impossibile è avvenuto lo stesso. I due giganti sono crollati fragorosamente e, solo allora, lei ha smesso. L'undici settembre, Abra mostra al mondo la sua straordinaria luccicanza e Dan capisce che se lui è una torcia, quella piccolina è un dannatissimo faro umano. I tempi sono molto dilatati: da un capitolo all'altro, possono passare mesi, addirittura anni. Stephen King sa essere piuttosto prolissimo – e a me piace proprio così, con le sue parole splendidamente di troppo – ma non questa volta: l'utilizzo di impeccabili ellissi narrative, gestite con la più totale padronanza e naturalezza, ha reso le generazioni fluide come stagioni, gli anni corti sospiri, il passato una terra (non) straniera, la lettura delle più scorrevoli mai intraprese. Finché Abra e Dan s'incontrano, seduti sulla panchina del parco, all'uscita della biblioteca comunale: vicini, ma non troppo. Una ragazzina e un uomo adulto: sapete com'è, se ne sentono tante, in giro... Comunicano mentale, comunicano tanto. Tra di loro, ma, soprattutto, a quel lettore che, con interesse, apprensione e sentimento, segue il pericoloso apprendistato di Abra e la coraggiosa espiazione di Dan. Una panchina in un parco, una sedia al capezzale di un malato: Dan come il Dottor Sonno. Tra i piedi, il misterioso Azrael: un gattone grigio, che non a caso porta il nome dell'angelo della morte, con un terrificante sesto senso e tanto di non detto che meriterebbe, per me, di essere raccontato in una novella a sé, un giorno. Quella Abra, che non abbandona mai il suo peluche e che con il potere della mente attacca le posate al soffitto, è la sorella segreta di Carrie White e Charlie McGee, in compagnia del migliore amico che loro, sfortunate, non hanno mai avuto. Delicatissima e potente, non completamente originale ma sempre convincente - nonché ultima nata in una lunga tradizione letteraria di dodicenni armate di poteri prodigiosi - , dialoga metaforicamente con quelle famose sorelle di sangue che hanno vissuto in altri romanzi e, esperta, guida il protagonista in una caccia al tesoro lungo il perimetro di una fabbrica in rovina. Lungo il bordo della paura. I loro nemici hanno grotteschi nomi da pirata e, con i loro caravan, solcano le autostrade americane come fossero tutte parte di un mare immenso. Bevono grida, assaporano luce, mangiano bambini: sono Scilla e Cariddi, Capitan Uncino. Il Nodo Vero. Rose, il loro carismatico leader, ha la sensualità, gli amanti e gli anni di una millenaria vampira, il linguaggio colorito di un incensurato pirata, un cappello a cilindro che sfida la forza di gravità. Eccessiva, energica, focosa, ha le forme e i tratti pulp di una fanciulla di un B-Movie alla Grindhouse. I suoi complici sono al di sopra di ogni sospetto. Vedendoli, infatti, penseresti a un paio di tranquilli e noiosi pensionati, con l'hobby per la caccia all'uomo. Pensionati, o in attesa del pensionamento, anche molti compagni d'avventura di Abra e Dan: un "gerontofilo" come me può forse non averli adorati? Billy Freeman, il dottor John Dalton, Concetta… luccicano, tutti quanti, come, nel primo volume, faceva il saggio e lungimirante Dick Halloran. Dopo tanti anni, Doctor Sleep è un secondo capito che non aspettavamo, non un sequel in piena regola. Molti personaggi sono diversi e le intenzioni sono diverse, proprio come i toni adoperati. King ritorna all'Overlook, esaminando quello che ne resta. Brutti ricordi, fantasmi evanescenti, medagliette testimoni di una vita senza più dipendenza. Ha imparato più agli Alcolisti Anonimi che ai club letterari, lui: la vita è bastarda, ma insegna. Annota, perciò, momenti di pura condivisione – ricorda con una risata, per esempio, quella volta in cui un uomo vomitò su un poliziotto o, con un brivido, l'altra in cui una mamma perse l'affidamento dei suoi stessi figli per colpa della bottiglia – e seziona la mente umana come fosse una biblioteca che i fumi dell'alcol hanno messo in disordine. Psicoanalisi spiccia, ma sensibilità e buonsenso a palate: cose dettate dall'età, insegnamenti suggeriti dall'esperienza. Dopo una vita di stragi efferate, con il tono mesto ed evocativo dei grandi addii, Stephen King si concede quel pizzico di bontà che non guasta. Meno cattivo, ma sempre in forma smagliante, torna in libreria per provarci – se mai ce ne fosse stato bisogno – che non ha perso il tocco e lo smalto. Doctor Sleep è un'altra storia. Di Shining, da bambino, ho avuto paura. In questo caso, la paura provata era di un altro tipo: paura di andare avanti, di portarlo a termine. Di trovarmi a leggere un epilogo così emozionante, così bello, così definitivo. Paura di vedere svanire la luccicanza in Dan e di veder balenare, per una volta, un tremulo lucchichio nei miei occhi, mai stanchi di cotanta maestria. Il mio voto: ★★★★ Il mio consiglio musicale: Elisa - Labyrinth
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