A Belfast, nel 1993, il processo di pacificazione tra l’IRA e le forze britanniche non è ancora concluso e in ogni famiglia gli scontri tra chi desidera una tregua e chi ritiene necessario continuare a lottare sono all’ordine del giorno. Casa Mcveigh non fa differenza: Collette (Andrea Riseborough), una mamma single, nonostante la lunga militanza nell’IRA vuole solo vivere tranquilla, mentre suo fratello Gerry (Aidan Gillen) vede nella possibile fine delle ostilità una dichiarazione di resa inaccettabile. Quando la giovane donna, suo malgrado, viene mandata a Londra per compiere un atto terroristico, i dubbi nascosti per anni dentro di lei vengono a galla. Catturata e obbligata dall’agente Mac (Clive Owen) a una dura scelta, scontare 25 anni di carcere o tornare a Belfast per diventare una spia dei suoi stessi familiari, Collette, atterrita dall’idea di non poter più rivedere suo figlio, decide di collaborare con l’IM5 e di tradire la causa e chi le sta vicino. Le garanzie promesse dalla polizia, però, si rivelano infondate e quando si insinua nel gruppo di attivisti il sospetto che tra loro si nasconda una talpa da eliminare, l’incolumità della ragazza sarà in serio pericolo.
Non è solo la giovane donna, però, a fare il Doppio Gioco che dà il titolo al film. In questa vicenda, infatti, tutti, dai militanti ai militari, si troveranno prima o poi costretti a mentire e a fare delle scelte estreme, poiché ingranaggi del circolo vizioso di paura e odio radicato nell’Irlanda del Nord dei primi anni novanta.
Due volte frutto della penna di Tom Bradby, poiché nata come libro e solo successivamente adattata a sceneggiatura dall’autore stesso, la storia ha il pregio di mettere a fuoco la difficoltà di vivere in un costante stato di conflitto grazie alla felice trovata di isolare, come se fosse dietro una lente d’ingrandimento, un solo interno familiare, paradigma dell’intero contesto storico e sociale.
La messa in scena del regista James Marsh, da sempre più attento alla realtà (ha vinto con il documentario Project Nim la sezione World Documentary al Sundance 2011) che agli effetti speciali, senza forzare eccessivamente la mano alla ricerca della tensione tipica dei thriller di spionaggio, accompagna lo spettatore nelle pieghe psicologiche dei personaggi, facendo affiorare in superficie i loro sentimenti -amore materno, struggimento, diffidenza- in un crescendo lento ma intenso.
Il ritmo non sempre incalzante e i silenzi protratti sono ben bilanciati dall’atmosfera di inquietudine latente e da due colpi di scena finali che, da soli, valgono tutto il film.
Nelle sale italiane dal 27 giugno, Doppio Gioco dimostra che, se ricerca stilistica, buoni interpreti e una storia solida sono le condizioni irrinunciabili per dare vita a un lungometraggio di tutto rispetto, il resto, spesso, è davvero superfluo.
di Marta Pirola