Perché pagare il biglietto per saltare dalla seggiola? È davvero così autolesionista l’essere umano? Che scopo ha vedere un film dove sai che ti spaventerai per un’opera di pura fantasia?
Quante volte noi amanti del brivido abbiamo dovuto replicare a queste domande? Si è esatto, noi siamo quelli che son disposti a fare i chilometri a caccia dell’unica sala che proietta l’ultima fatica di John Carpenter, perché speriamo che almeno lui riesca ad accelerarci il battito cardiaco per una abbondante ora; ci piace sobbalzare dalla poltrona perché un orripilante fantasma, in stato di avanzata decomposizione, sottrae la coperta all’ennesima “ospite” di un reparto psichiatrico che non ricorda per quale motivo sia stata ivi segregata. Lei è bella, forte e scoprirà la verità sull’oscura presenza, che turba il sonno di tutti e tortura le sue prede, e noi tiferemo per 88 minuti per la sua salvezza, perché in questi film non è detto che il bene trionfi per forza, ma soprattutto perché questo regista spesso ci risparmia inutili moralismi.
Il nostro scopo secondo molti è dimostrare a noi stessi di avere maggiore resistenza, di certo - dopo esserci addormentati con Paranormal Activity 2 - avevamo bisogno di riscattare il genere. E il padre di “Fuga da New York”, “La Cosa “e “Grosso Guaio a Chinatown”, nonostante ci faccia attendere un lustro tra una pellicola e l’altra, è garanzia, grazie a tutti i chilometri di bobine su malefico e meandri della mente che ha sulle spalle, che il prodotto finale sia ben confezionato, anche quando il plot non brilla per originalità e le situazioni son tutte molto prevedibili. Solo un ottimo regista riesce infatti a tenerti costantemente con il fiato sospeso e mi fa gongolare il fatto di non essere l’unica a pensarlo
A.: “Impallidisco davanti ad una maestria registica che riesce a non darti tregua per tutta la durata del film e che rende originali e diverse anche le cose più banali!”
Sull’onda dell’entusiasmo, incalzo A. con domande tecniche e lui, per tutta risposta, si illumina:
Siamo di fronte ad un’opera decisamente classica: pochi insensati virtuosismi e movimenti di macchina controllati da mano ferma e capace anche quando l’azione si movimenta. Il montaggio evita l’effetto videoclip tanto in voga per creare armonie, sinuose sovrapposizioni di inquadrature dalle quali emerge chiaramente l’intento narrativo. Si riconosce un utilizzo del dolly, di riprese dall’alto e di soggettive tanto strane ed inusuali quanto tipiche di Carpenter.
Certamente il regista ha creato di meglio, non è un capolavoro (è colpa della storia!), ma la sua promessa di fare un film “old school” è stata mantenuta in ogni dettaglio: dalla fotografia sgranata, non lucida e patinata; al trucco a mano spesso imperfetto; sino ad una scenografia povera, seppur attenta ai dettagli. Inoltre è assente qualsivoglia denuncia sociale o sociologica e la psicologia dei personaggi è tratteggiata in modo deciso e lineare ma il minimo indispensabile – ad ulteriore conferma di uno stile ormai perso.
Cosi il grande regista è riuscito a farci dubitare di aver di fronte un film anni ’80, in cui la gestione della suspense è talmente ottimale da dispiacerci quando rovinata da trucchetti usati e abusati che fan passare l’opera per non originale, così come è decisamente un peccato manchi una colonna sonora creata dallo stesso Carpenter, posto che solitamente firma le musiche di tutti i suoi film.
Mi sorge quindi un dubbio: che quindi ci piaccia tanto e soprattutto abbia così tanta presa sulla mia generazione perché figlia degli anni’80?
Articolo redatto il 16 aprile 2011 da V.
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