Autore: Andrea Zanzotto
Prefazione di: Giuliano Scabia
Editore: Einaudi
ISBN: 9788806209636
Anno: 2012
Lingua: italiana
Numero pagine: p. XIV – 90
Prezzo: € 9,00
Genere: Poesia
Voto:
Contenuto: [dalla quarta di copertina] Il percorso poetico di Zanzotto, fondamentale nella poesia italiana degli ultimi cinquant’anni, ha saputo recuperare lingue, forme e culture più o meno defunte rivitalizzandole, come scrisse Fortini, in «un’oltranza informale, esorbitante, lacerante». Filò, che ebbe inizialmente l’aspetto minore di un libro d’occasione, è in realtà la quintessenza, magari in una forma più cordiale rispetto ad altri libri, di questi elementi chiave della poesia di Zanzotto. Ciò che sembra ampiamente masticato dalla storia si riproietta in una forma sperimentale: passato e futuro si alleano per stanare il grumo oscuro e indifferenziato che abita sia l’inconscio soggettivo sia la sostanza panica del mondo. L’uso ampio del petèl, lingua infantile che ha la concretezza del parlato ma è anche piena di misteriosi richiami, porta la raccolta in questa direzione. Lo stesso felice sodalizio con Fellini è l’esito di una comune visione della storia e delle origini, il comune inseguimento di archetipi travestiti da fantasie private e viceversa.
Riproporre questo piccolo grande libro a un anno dalla scomparsa del poeta vuole soprattutto essere un omaggio e insieme un invito a rileggere un autore tra i più affascinanti e vitali della poesia italiana.
Con una lettera e cinque disegni di Federico Fellini.
Recensione: Zanzotto scrive Filò per il Casanova di Fellini. All’inizio del film, in un immaginario rito, vediamo e udiamo Venezia attendere che la testa-terra di una divinità nera sorga dalla laguna. C’è tutto un popolo (Recitativo veneziano) inginocchiato, imprecante, implorante sull’orlo di un abisso equoreo e misterioso. Non c’è più la vena lagunare conosciuta, navigata, ma una pupilla di profondità sconosciute da cui si erge nei desideri della folla la testa di una dea nera.
Nel racconto di Fellini e Zanzotto la testa non riesce a emergere interamente e sprofonda nell’insondabile oscurità limacciosa.
La lingua veneta (o almeno quella fino agli anni ’20 del secolo scorso, storpiata da chi pretende, oggi, di parlarla) ha una liquefatta dolcezza d’acqua, lievi sono le sue durezze, come di sassi, frammenti e sedimenti portati nella corrente di fiume. Per il resto scivola come un vento marino, sino a quando le adoranti implorazioni si fanno quasi mordaci imprecazioni verso la divinità che non emerge, e intorno si ode il ribollire di parole inquiete, impaurite. Cercare il linguaggio, ricrearlo (sia lingua italiana o dialettale) è scendere negli spazi siderali del cuore, della psiche, in quei baratri fondi (busi fondi), in quella culla dove si mescola ancora il nostro sangue con creature e mostri atavici che erano prima della nostra creazione.
Nel dialetto vi è ricchezza di suoni selvatici, un pensiero vivo, vibrante, non vi è automatismo linguistico o freddo schema. Il dialetto appartiene ancora alla terra dove il poeta speleologo scende sprofondando, scoprendo un divino carnale che ci è restituito nei suoi versi.
Per chi non conoscesse il poeta Andrea Zanzotto (1921-2011 ) trova QUI una bella intervista che ne ritrae la persona.