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Recensione: Florence Gordon, di Brian Morton

Creato il 21 settembre 2015 da Mik_94
"E' semplicemente fantasticoEssere insultata da Florence Gordon durante il nostro primo incontro.Mi sembra di essere stata promossa in serie A"
Recensione: Florence Gordon, di Brian Morton Titolo: Florence Gordon Autore: Brian Morton Editore: Sonzogno Numero di pagine: 317 Prezzo: € 17,50 Sinossi: Florence Gordon ha settantacinque anni e vive a Manhattan. Femminista ebrea divorziata, scrittrice scorbutica, attivista testarda e orgogliosa, detesta la maggior parte delle cose che la gente trova piacevoli e ama mettere gli altri in difficoltà. Mentre è alle prese con la sua settima fatica, un libro di memorie, un articolo del "New York Times" la definisce "patrimonio nazionale", catapultandola sotto le luci della ribalta e obbligandola a superare quel filo spinato che aveva eretto intorno a sé. La situazione precipita quando i suoi "cari" si trasferiscono da Seattle a New York: il figlio Daniel (che ha snobbato le orme letterarie dei genitori per diventare poliziotto), la nuora Janine (psicologa, pronta ad avere una relazione con il suo capo) e la nipote Emily (che sta cercando di capire cosa fare di una problematica storia d'amore). Tra i quattro, giorno dopo giorno, si intreccia una commedia irresistibile, all'insegna di una crudele sincerità ma anche di una sorprendente complicità emotiva. L'anziana signora, i cui corrosivi commenti sono una sorta di "versione di Barney" al femminile, non risparmia niente e nessuno. E forse proprio per questo i personaggi che la circondano (e i lettori di questo libro) finiranno per affezionarsi a lei e non poter più fare a meno della sua voce.                                                     La recensione Recensione: Florence Gordon, di Brian Morton In un mondo in cui gli antipatici sono i nuovi simpatici e gli introversi i nuovi estroversi, i misantropi convinti – allergici alle pubbliche manifestazioni d'affetto, chiusi a riccio, pessimisti e sfiduciati – vanno ormai di moda. L'altro giorno, in centro, ho visto un ragazzino con la faccia della felicità, le guance rosse e il sorriso tutto denti, con una T-Shirt con su scritto: I Hate Everyone. Io che, in certi giorni, nel dubbio, odio tutto e tutti davvero, usando la scusa della timidezza cronica che mi rende silenzioso quando la compagnia non è di mio gradimento e rispostacce come armi a doppio taglio quando nessuno mai se le aspetterebbe dal tipo con gli occhiali che non ha nulla da dire, per essere alternativo dovrò mica imparare a socializzare? Gli scorbutici di cui ho letto quest'anno nei romanzi – con il mondo contro per posizione presa, ma diretti verso una parziale redenzione finale – si convertivano alla gentilezza come Scrooge davanti al Fantasma del Natale passato. Perché, dopo disavventure e piccoli miracoli, con la saggezza della vecchiaia – e la paura della morte, e una lista di cose da fare prima di tirare la cuoia – scoprivano essenzialmente che c'era ancora del buono, che la vita è bella finché dura, che non è mai troppo tardi. C'è poi Florence Gordon, eroina eponima del primo romanzo di Brian Morton giunto in Italia, che sa dimostrarsi coerente, puntuale e divertentissima. Ha il nome di una delle città più suggestive al mondo e di una cantante che sembra una splendida sirena degli abissi. Ha professato con caparbia il femminismo e la libertà negli anni della rivoluzione sessuale e, verso gli ottanta, rimane una vecchietta arzilla e indipentente, dotata di silhouette snella, passo svelto e imprevedibili risorse. Arrivata al punto di una vita intensa e di una carriera gloriosa in cui può permettersi la stesura di un memoir ricco e un po' autoreferenziale, scopre grazie a una recensione entusiastica – non la mia, perché Florence si accontenterebbe solo del Times – di essere patrimonio dell'umanità. Mentre si prepara all'arrivo di un'insperata notorietà (non è mai troppo tardi), il corpo inizia a dare i primi segni di fragilità (ma la vita è bella finché dura) e le si stringe attorno quel che rimane di una famiglia che ha voluto tenere a distanza (c'è ancora del buono). Se il copione sembra classico, in realtà Florence Gordon sorprende: perché, come dicevo, nessuno diventa d'un tratto dolce come lo zucchero e perché, dall'alto del suo adorabile egocentrismo, la protagonista – che ha avuto un libro con il suo nome, ma in cui c'è posto anche per gli altri – lascia parlare e sparlare anche chi le è, suo malgrado, vicino. Nessuna metropoli è abbastanza grande, nessun telefono è abbastanza irraggiungibile, se i Gordon decidono di riunirsi. Chi sono i soggetti di questa foto di famiglia a cui la matriarca non può sottrarsi?  Recensione: Florence Gordon, di Brian Morton Daniel, il figlio poliziotto che, per ribellismo, non ha voluto seguire le orme dei genitori; Janine, la nuora rispettosa e adorante che ha una cotta per il suo capo; Emily, la nipote brillante e sfacciata che, in famiglia, è l'unica che riesca a tenere testa a una nonna anaffettiva che la tratta come un factotum. Se fosse un film, sarebbe una commedia di Woody Allen. Elegante, verbosa, con un cast all stars. Già immagino la locandina, al cinema, con generazioni a confronto: i due attori di mezza età bollati, anni prima, come promettenti ma che non hanno mai fatto, poi, il fatidico botto; la giovane stella in ascesa, amatissima dagli adolescenti, che qui dimostrerebbe di possedere notevole temperamento; la grande diva senza età, infine, che monopolizza le attenzioni e colleziona candidature. Florence è una Meryl Streep con qualche anno in più sulle spalle: una carriera straordinaria, l'essere sempre all'altezza, la nascita di una vaga antipatia presso i più – io, ovviamente, costituisco felicemente una categoria a parte quando si parla per congetture, ovvio, della più grande attrice vivente e della più grande rompipalle di carta e inchiostro – perché è come il prezzemolo e nessuno regge mai il paragone. Se fosse un film, non apparterrebbe però al mio genere preferito. Anche se amo il cinema che s'ispira al grande teatro, pieno di dialoghi ritmati e battute a raffica. Ma di solito sono abituato a discorsi piccoli che diventano grandi. Questa volta, invece, discorsi grandi diventano piccoli. Si passa dai dialoghi sopra i massimi sistemi all'intimità e non il contrario. Il romanzo pesa e non pesa, dunque, e sfiora e non sfiora, anche per coprotagonisti a noi sconosciuti: New York e i suoi newyorkesi di fretta, fissi al telefono. Se senilità e famiglia sono temi in rilievo, la Grande Mela costituisce il sottotesto – e Florence sarebbe lieta della mia precisazione. La nostra distanza dalla cima dell'Empire State Building o dall'ombra fantasma delle Torri, l'estraneità dinanzi a taluni argomenti di discussione – starà facendo bene Obama, e quanto è aumentato il prezzo della sanità? - rende parzialmente inconoscibile quella realtà, vista non con gli occhi meravigliati del turista passeggero. Ed è come se qualcosa si perdesse nella traduzione – non dico in quella ineccepibile di Parolini e Curtoni, sia chiaro – e nel corso del viaggio. L'immagine conclusiva, da fitta al cuore, così amara e necessaria, ha un'intensità smorzata per la scelta consapevole e onesta del freddo rigore di Florence. Fino all'ultimo, lupo solitario. 
Una risposta sarcastica potrà dare mille soddisfazioni perciò, ma un cuore caldo penso assicuri più ricordi. Il mio voto: ★★★ Il mio consiglio musicale: George Gershwin – Rhapsody in Blue (“Manhattan” Soundtrack)

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