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Recensione: GOLTZIUS AND THE PELICAN COMPANY di Peter Greenaway. Sesso e sangue: il Salò-Sade di Greenaway?

Creato il 17 marzo 2015 da Luigilocatelli

445576Goltzius and the Pelican Company, un film di Peter Greenaway. Con F. Murray Abraham, Ramsey Nasr, Kate Moran, Flavio Parenti, Giulio Berruti, Anne Louise Hassing Lars Edinger, Pippo Delbono, Francesco De Vito, Stefano Scherini. 2012. VO con sottotitoli. Distribuzione Lo Scrittoio e Maremosso.
Schermata 2015-03-17 alle 16.25.54Dopo essere stato proiettato a teatro, arriva in qualche sala il penultimo film di Peter Greenaway (l’ultimo essendo l’Eisenstein in Guanajuato visto alla Berlinale). Uno stampatore e capocomico olandese del ’500 mette in scena per un mecenate i peccati della carne descritti nel Vecchio Testamento. Un Greenaway all’ennesima potenza, denso, colto, pieno di echi e citazioni, e però anche di una grevità non sempre così sopportabile. Con nudi e un bel po’ di sesso esplicito. Il Salò-Sade del regista-artista inglese? Voto 7+
Schermata 2015-03-17 alle 16.25.40goltzius-and-the-pelican-company-peter-greenaway-022In attesa che arrivi in sala il molto bello e anche molto divertente nuovo film di Peter Greenaway Eisenstein in Guanajuato visto in concorso alla recente Berlinale (lo ha acquistato per l’Italia Teodora), cercate di intercettare questo suo penultimo, anche se meno divertente, Goltzius and the Pelican Company distribuito con modalità eterodosse prima in alcuni teatri poi nei cinema. Circolazione ovviamente difficile, come si addice a un autore venerato ma che richiede attenzione e concentrazione al suo pubblico (un pubblico che comprende uno zoccolo durissimo di devoti), e dunque sarà meglio che consultiate la pagina Facebook del film per conoscere gli eventuali screening dalle vostre parti. Un Greenaway-movie che porta impressi come stimmate tutti i segni, e i vezzi e anche i vizi del suo autore. La passione al limite del feticismo per la grande arte europea; dialoghi e monologhi in una lingua sontuosa, rotonda, baroccheggiante, densa, gonfia di citazioni colte e echi dei classici, a partire da Shakespeare; la narrazione svolta attraverso una o plurime messinscene teatrali, e una pratica cinematografica che essa stessa si configura come la prosecuzione del teatro con altri mezzi; ibridazioni e sconfinamenti tra videoart, sperimentazioni varie (body art, performance ecc.) e cinema; l’ossessione della calligrafia; la centralità del corpo, della carne, del sesso, e di un sesso spesso esplicito e al limite di quella cosa chiamata pornografia. Ecco, Goltzius è tutto questo, un film che si mostra come un quasi-manifesto, come paradigma e modello esemplare delle intenzioni del suo autore. Sempre di una sontuosità visuale, e di una cultura visuale, che pochi oggi al mondo possono eguagliare, con però anche momenti e pezzi di rara sgradevolezza, di una grevità quasi palpabile alquanto respingente. E con parecchi ingorghi e lentezze narrative. Mai avuto il dono delle levità, Greenaway, tantomeno qui, in questo Goltzius, dove i piatti che escono dalla sua cucina sembrano trionfi barocchi che saziano gli occhi, ma che rischiano di essere indigeribili e perfino tossici. L’inpressione, anche, è che, rispetto al precedente (di cinque-sei anni) Nightwatch sulla nascita e i misteri che circondano La ronda di notte di Rembrandt, stavolta il regista (e molte altre cose) inglese abbia avuto meno mezzi a disposizione e si sia dovuto arrangiare con un budget limitato, andando a pescare soldi e supporti, ma anche location, collaboratori e attori, in una peregrinazione che a me ha ricordato certe odissee in cerca di mecenati di Roberto Rossellini e Orson Welles. Goltzius and the Pelican Company è stato difatti girato interamente a Zagabria, Croazia, in un’immensa struttura industriale dismessa, una di quelle cattedrali di ferro e vetro che punteggiano l’Europa un tempo continente-fabbrica e oggi non si sa più che cosa. Con un cast con dentro parecchi italiani (tra cui Giulio Berruti, Pippo Delbono e Flavio Parenti) ad affiancare il protagonista, l’olandese Ramsey Nasr – che di primo mestiere fa il poeta! – e il coprotagonista, l’americano F. Murray Abraham, somigliantissimo a Gigi Proietti. Si racconta un qualcosa che solo a Greenaway poteva venire in mente di mettere in cinema, dell’incisore di Amsterdam Hendrik Goltzius vissuto nella seconda metà del Cinquecento, e che in questo film vediamo a Colmar, dal Margravio d’Alsazia, a cercare finanziamenti per l’opera che ha in mente di stampare, l’illustrazione degli episodi più eroticamente interessanti e licenziosi dell’Antico testamento, da Adamo, Eva e il serpente a David e Betsabea alle relazioni di Lot con le sue figlie, e via così, in una cavalcata attraverso i peccati della carne biblicamente elencati. Chiede anche al Margravio che vengano acquistate nuove macchine stampatrici in linea con le più avanzate tecnologie. Il signore d’Alsazia prima di dare il suo consenso esige che Goltzius con la sua compagnia teatrale del Pellicano metta in scena davanti a lui e alla corte le storie che intende illustrare e mandare in stampa. Tra il pubblico, e tra i giudici, ci sarà anche un rabbino, cui è demandato di verificare l’ortodossia biblica, nonché rappresentanti della chiesa cattolica e della Riforma (siamo nel tardo Cinquecento, con il protestantesimo che ha già conquistato parte dell’Europa, e in quella tregua delle feroci lotte di religione che si colloca tra la pace di Augusta e l’inizio della Guerra dei trent’anni). Di fronte a una platea che è anche tribunale, incomincia da parte di Goltzius e dei suoi attori la teatralizzazione dei più viziosi momenti vetero-testamentari, suddivisi per capitoli che vanno dall’incesto all’adulterio al voyeurismo. Ma non tutto andrà come previsto. Immediatamente la recita si satura di tensioni, voglie, desideri per così dire extrascenici. Il Margravio si lascia abbacinare e coinvolgere dalle nudità, dagli attori di quella che sembra trasformarsi in un’orgia in forma di spettacolo, pretende che la sua attrice favorita vada in pedana per le scene più calde, interviene, impone, scompagina l’ordine prestabilito. Vita e rappresentazione si intersecano e cortocircuitano pericolosamente. Il potere, nella sua ferrigna consistenza, travolgerà e stravolgerà quella che doveva essere solo una conturbante recita, in un gioco del sesso e del sangue con gelosie, assassinii, torture, depravazioni, massacri. “Questa è la corte più libera e tollerante d’Europa”, ripete come un mantra il Margravio, ma la barbarie man mano riaffiora da sotto la patina della civilizzazione, e resterà solo una fosca tragedia di Dominatori e Sottomessi. Vedendo questo spettacolo di poveri guitti costretti a ogni pubblica perversione per l’intrattenimento del loro Signore e Carnefice non ho potuto non pensare al Salò-Sade di Pasolini. Le affinità tra i due film son parecchie, e mi chiedo se Peter Greeenaway le abbia programmate e previste o si tratti solo di una di quelle consonaze di cui è pieno il cinema. Nonostante il molto sesso esibito – e parecchi falli in erezione, compreso uno assai arcuato avvolto vezzosamente in un nastro rosso – difficile trovare un film meno erotizzante di Goltzius. Perché l’intreccio tra Eros e Thanatos è troppo stretto, e i bagni di sangue da teatro elisabettiano finiscono con l’elidere ogni voglia e ogni desiderio, per non parlare di quelle carni pallide e quasi putrefatte alla Cranach, di quei corpi spesso non perfetti da quadreria fiamminga (e anche quando son perfetti e ginasticati vengon penalizzati e illividiti da luci e inquadrature mortificanti) che son quanto di più lontano si possa pensare da ogni gaudente trionfo. In Goltzius and the Pelican Company molti han visto la rappresentazione per metafora del cinema e della sua attuale travagliata rivoluzione digitale. A me, francamente, è parsa più un’autorappresentazione di Peter Greenaway e della sua attuale difficoltà a fare il suo cinema, a trovare mecenati, complici e finanziatori, e della più generale difficoltà di tutto il cinema d’autore, oggi, a trovare chi ci mette i soldi e un pubblico.


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